Non appartiene a un museo
Come ai videogiochi non servano tanto i musei, quanto le biblioteche
Lo scorso 2 luglio il Museo Nazionale del Cinema a Torino inaugurava VIDEO GAME ZONE, un’area permanente completamente dedicata ai giochini. Non c’è nulla di sbagliato in tutto questo – c’è molto di sbagliato nel chiamare David Cage come special guest, ma è un altro discorso –, però la cosa mi ha dato un po’ da pensare. È quello di cui i videogiochi hanno bisogno? E se no, com’è che alla notizia abbiamo sciabolato tutti e nessuno si è posto la domanda?
Ormai però lo sai, prima i podcastini clickbait™ e poi un po’ di riflessioni su musei & giochini. E su come si sia sciabolato per la solita invidia del pene degli altri media.
Winner Tarkov: i giochini dell’estate
Dai, eravamo seri da troppe puntate di fila, e in questi casi scatta sempre il cestone. Non tanto di giochi da giocare quest’estate, quanto sul perché certi giochi ci facciano pensare a quel periodo dell’anno dove Studio Aperto consiglia ai vecchi di non uscire (cosa che diventa una comoda scusa per fare assenteismo a Montecitorio).
C’è roba di cui si parla poco e diversi insulti a Scibetta che in modo quasi-diegetico accende e spegne il climatizzatore per tutta la puntata lamentandosi pure quando gli si chiede di mutare il microfono mentre lo fa.
Tutti concord che Concord ndo va?
Non sta succedendo quasi un gran cazzo a livello di Res Ludica, però era comunque un buon momento per un Checkpoint. C’è la beta di Concord (prima closed, poi open, poi allungata di 2 giorni). C’è Microsoft che cancella Crash 5 e Nintendo che non credita i localizzatori dei suoi giochini.
E per chi esce il grano…
Quando ero ragazzino e non c’avevo ‘na lira i cestoni del supermercato coi videogiochi a 5-10-20€ (quando era festa) mi hanno salvato. Ma soprattutto mi hanno regalato la consapolezza che ho oggi sul videogioco, perché mi permettevano un lusso che oggi non mi concedo più: giocare ai giochi brutti.
Per ascoltare il Gameromancer col Rolex™ di questa settimana servono i soliti 5€. Come al solito, si può attivare la trial gratuita che dà accesso a tutti i contenuti in quella tier, 169 mini-podcast (non sempre mini) e una manciata di anteprime. Oltre alla nostra immortale gratitudine. E a questo proposito è doveroso il solito ringraziamento a chi scuce già del Dan Harrow denaro e foraggia la ribellione.
Non tanto per i soldi di per sé, quanto per la community e per le persone che sono. In una wasteland post-apocalittica come la Game Critique aver vicino gente così è una cosa che va molto oltre l’euro richiesto per entrare nel gruppo Patreon.
Meglio Zelda Musou che Zelda al museo
Il pensiero di questa settimana si potrebbe riassumere così: ai videogiochi non servono davvero i musei, ma le librerie. Tutto il resto in realtà non fa altro che condire il discorso agganciandoci spiegazioni e giustificazioni, ma il punto è quello.
Il videogioco per essere vivo ha bisogno di essere giocato. Non può essere messo dietro una teca, non possiamo limitarci a guardarlo o ad ascoltare un gruppo di stronzi che ne parla. Tutto quello che sta attorno all’atto del videogiocare è assolutamente parte del medium, ma non è la sua essenza.
Se non premessimo mai start di che cazzo dovremmo discutere? Il problema è che per premere start – tieniti forte – ti serve un tasto start.
E quel tasto (fisicamente quel tasto, non in senso astratto, non in generale) in quel momento può premerlo solo la persona che tiene il controller in mano. È il limite fisico dei videogiochi: può giocare una persona alla volta. Anche quando giochiamo multiplayer, anche nel più massivo degli MMO. Ad un controller – o in generale ad una qualunque periferica di controllo – corrisponde un solo giocatore. Non è banale. Per diffondere della musica bastano un paio di casse, e SIAE a parte nessuno raggiunto un certo numero di persone dirà che basta, non può ascoltare nessun altro. Per il Cinema e le arti visive in generale è più o meno la stessa cosa: con uno spazio abbastanza grande a disposizione potremmo guardare tutti lo stesso film, lo stesso quadro, la stessa scultura contemporaneamente. Ognuno ne trarrebbe un’esperienza diversa – è quello che fa l’arte –, ma il limite fisico è molto più difficile da raggiungere.
In questo i videogiochi hanno molto più in comune con la Letteratura. Anche lì l’equazione è “1 libro = 1 lettore” e non se ne scappa, se vogliamo leggere contemporaneamente la stessa cosa ci servono due testi (oppure uno dei due deve invadere lo spazio personale dell’altro, ma questa è semantica). Non è l’unico parallelo che si possa fare. Per qualche motivo ad un certo punto abbiamo deciso che il metro da utilizzare per i giochini era Hollywood, ma ad Hollywood una volta che qualcuno ha pigiato Play poi di noi non frega più un gran cazzo. Un film o un episodio di una serie tv vanno avanti anche senza un pubblico, una volta avviati non hanno bisogno di altro. Un libro invece ha bisogno di essere aperto e sfogliato. Finché non succede, la storia non prosegue, è immobile tra quelle pagine esattamente quanto un videogioco è in un supporto di memoria. Il requisito minimo per guardare un film è conoscerne la lingua. Per la musica non serve nemmeno quello, basta il senso dell’udito, il testo spesso può arrivare in seconda battuta, tant’è che alla fine degli anni ‘90 tutto il mondo è impazzito per una canzone che diceva “I'm blue
da ba dee da ba di”. Per leggere invece devi saper leggere. Per giocare, devi saper giocare. Non puoi finire il primo Super Mario se non impari a saltare correttamente – curiosamente puoi finire Super Mario 64 senza, ma è una roba ancora più hardcore. Di più: devi poter giocare. Devi avere a disposizione una copia del gioco, un hardware in grado di riprodurlo e una periferica di input che come detto prima può essere usata da una sola persona alla volta.
Anche gli altri media dipendono dall’hardware, ma non hanno bisogno di dispositivi dedicati.
I libri alla fine han bisogno solo della carta o di qualcosa di simile – poi chiaro, da che ci siamo inventati la stampa a caratteri mobili è estremamente più semplice cacarne uno e con l’avvento del digitale s’è bypassata pure la carta, ma teniamo le cose semplici. Amazon mi dice che in questo momento 5 risme di carta da 500 fogli l’una (25000 pagine, peraltro in A4) costano 28€. Per vedere un film ti basta una tv con un lettore di qualche tipo (anche qua col digitale in realtà abbiam superato la necessità dei lettori, ma di nuovo, teniamo le cose semplici). Cose che siamo abituati ormai da mezzo secolo ad avere in casa, e da ancora più tempo per quanto riguarda la musica (la radio è un’invenzione di fine ‘800). Per giocare invece – al netto del mobile e del cloud – servono 500€ di PlayStation. Come minimo.
Ed ecco quindi che di nuovo la soluzione andrebbe cercata guardando alla Letteratura più che al Cinema. I musei di per sé non sono un problema e non sono assolutamente sbagliati, ma qualcosa come le biblioteche ridurrebbe molto la barriera di ingresso economica per accedere al videogioco. Anche perché il videogioco ha già dimostrato di essere più che in grado di raccontare sé stesso in ottica museale. Qualche mesata fa ho giocato Llamasoft: The Jeff Minter Story che è sostanzialmente un museo giocabile dedicato a Jeff Minter. Come dicevo nella rece™ qua sorge un problema di capitalismo, perché per un Minter che può permettersi questa cosa essendo rimasto indie per tutta una vita esiste una Bungie che se volesse celebrare sé stessa con un’operazione del genere non può farlo perché i diritti di Halo non sono in mano all’azienda, ma son rimasti a Microsoft. In generale il problema è che finché c’è la pretesa di poter sfruttare commercialmente un videogioco all’infinito diventa molto difficile poterlo distribuire liberamente.
Ocarina of Time è uscito nel 1998, 26 anni fa. Ad oggi Nintendo permette di giocarlo solo su Switch e previo abbonamento, tutte le altre soluzioni implicano possedere l’originale + un Nintendo 64 funzionante (o la versione per GameCube e un GameCube, o la versione per 3DS e un 3DS) oppure ricorrere alla pirateria.
È impensabile che Ocarina of Time un giorno venga reso disponibile gratis e tantissima gente davanti a un’idea del genere direbbe pure che è ingiusta, tanto abbiamo interiorizzato il capitalismo come specie.
Tempo fa Scibetta aveva registrato un Amanda Reel su quanto Metal Gear Solid Delta fosse un’operazione superflua in quanto remake 1:1 (così lo vende Konami) dell’originale. Diversi commenti se la prendevano con Scibetta e ci godo sostenendo come Metal Gear Solid 3 originale ad oggi non fosse giocabile per via della grafica datata. È un po’ come se si chiedesse una riscrittura di Shakespeare perché non usa la parola cringe come la usiamo oggi. Lo scorso 2 luglio il Museo Nazionale del Cinema a Torino inaugurava VIDEO GAME ZONE, l’area permanente completamente dedicata ai videogiochi. Sembra un balzo illogico, ma andando a vedere com’è stata accolta la notizia (bene, nonostante il coinvolgimento del già citato Davide Gabbia) vedo un grossissimo scollamento tra come vediamo il videogioco e vorremmo venisse visto da tutti e come poi lo trattiamo.
Perché continuamo a riempirci la bocca dicendo che il videogioco è arte e cultura, e cose come VIDEO GAME ZONE vengono utilizzate come una validazione in questo senso. Però poi in realtà ci interessa poterli consumare, i videogiochi. Ci frega rispondano ad un nostro bisogno e poi fanculo a tutto il resto, è più importante pagare l’abbonamento a Nintendo per giocare giochi emulati male che preservarne l’esperienza di gioco nel modo più autentico possibile.
E allora i videogiochi non appartengono a un museo. Non perché non lo meritino o perché sarebbero meglio le biblioteche, ma perché alla fine non ci interessa davvero.
Ma con che pretesa parliamo di critica?
di Andrea “MVP” Scibetta
Scrivo di videogiochi da cinque anni e sono totalmente disilluso su quanto sia marcia la “critica”.
Mentre i ragazzini provano a inserirsi accettando di scrivere news a profusione per pochi spiccioli l’una, i matusa del settore dettano ancora legge, nonostante gli infiniti scheletri nell’armadio. A volte anche dopo essersi lavati le mani e la coscienza di qualunque responsabilità.
E mi devo sorbire pure gli stronzi che vengono sotto ai post di questa pagina a spiegarmi cosa è la critica e come andrebbe fatta professionalmente.
I critici dovrebbero aver studiato e dovrebbero essere oggettivi. Certo, le famose scuole per critici. In barba a qualunque dibattito sull’approccio che va avanti da secoli.
I videogiochi sono una cosa seria e dovrebbero parlarne critici seri e preparati. E te lo dice Ciccio Formaggio commentando questo post. E scemo io che mi metto anche lì a cercare di spiegargli la soggettività del giudizio o che ogni critico al mondo ha fatto un percorso di studio diverso.
Qui crediamo che l’oggettività non esista, che la critica di professione sia come gli unicorni, che i fasci vadano appesi e il capitalismo sia una merda. E che chiunque possa fare critica e dire cose interessanti, anche Ciccio Formaggio.
E se non gli sta bene che vada dai critici di videogiochi che hanno studiato e sono professionali. O anche a fanculo, che mi sa che è più facile.
Sogno un mondo con i titoli di coda al contrario, dove i nomi grossi lasciano il loro spazio a quelli dellə dimenticatə.
di Richard “Amaterasu” Sintoni
Davvero, pensiamoci un secondo: quante volte ci siamo vistə passare davanti gente meno competente di noi nell'organigramma aziendale, a prendersi meriti col culo nostro che siamo rimastə semplici pedine?
E sui giochini mi vien da pensare la stessa cosa alla fine. Ok Kojima, Miyazaki, Nomura e via discorrendo ci mettono un sacco del loro, ma all'atto pratico chi è che mette mano sui codici e voci nelle localizzazioni?
Gente della quale ignoriamo l'esistenza, non siamo nemmeno certə di poterne leggerne i nomi a fine titolo. Perché coi tempi che corrono viene pure fuori che per 'stə cristə manco c'è la garanzia di vedersi riconosciuto un lavoro nello schermo nero finale. Lavoro che magari è stato il sogno di una vita, distrutto dagli incubi del crunch e dei progetti che vengono annullati da un giorno all'altro.
Forse allora è il caso di dare un po' più di rilevanza a 'sta gente che passa così tante ore della sua vita per offrirci i nostri di sogni.
Che chissà, magari quelle liste finali le guardiamo più volentieri. E non solo sperando di vedere un teaser trailer per il titolo successivo.
Se guardare un gameplay è come giocare allora guardare i porno è come scopare.
di Pietro “Phatejoker” Iacullo
I videogiochi sono qualcosa di più della somma di tutte le altre arti. Quando ci accontentiamo di guardarli e basta, quando li riduciamo solo a "video" cancellando il "gioco", perdono quel qualcosa di più.
Perfino i giochi di Kojima – che ci raccontiamo come "wannabe regista frustrato" – hanno capito questa cosa una vita fa.
La scena del cordone ombelicale di Mama in Death Stranding non sarebbe la stessa cosa senza quel prompt che ti dice di premere un tasto per tagliare il cordone. È solo un cazzo di prompt, non ti mette fretta, non va a tempo, non richiede nessun tipo di skill. Eppure fa tutta la differenza del mondo, la stessa differenza tra guardare qualcosa e viverlo in prima persona.
I porno hanno la loro dignità, ma nessuno si sognerebbe di proporli come alternativa al sesso. Per lo stesso motivo un gameplay guardato su Internet non può sostituire l'esperienza di gioco vera, e quando lo fa allora semplicemente è perché il videogioco originale non è un buon videogioco.
Può essere una bella esperienza. Come guardare un porno, d'altronde.
Ma non è e non sarà mai come scopare.
Scibetta (che la scorsa settimana è stato grande protagonista, a questo punto) ha smattato perché uno stronzo a caso s’è preso a male per il seguente Amanda Reel, accusato di essere stato scritto per “cavalcare il malcontento”. Non sapevo che Concord fosse così rilevante da scatenare malcontento, ma hey.
Diverse delle cose che leggi in anteprima qui poi diventano 3D su TikTok e su Instagram. Se ti piacciono lette, recitate sono anche meglio. Forse. Te metti comunque il follow.
Spammini Tattici Nucleari™
SCHiM(imming in shadows)
Nella scorsa newsletter Richard accennava a un giochino che stavamo giocando contemporaneamente lui, io e l’altro l’Alteri. Il giochino è SCHiM.
La rece™ è sul Sacro Blog™ →
Ho bisogno di un po’ di Cataclismo
A proposito dell’Alteri, mi ha tolto dalla bocca Cataclismo che avrei tanto voluto coprire pure io perché pare una ficata pazzesca. È sostanzialmente il contrario di Besiege, ovvero: c’hai i LEGO ma invece di costruire le macchine d’assedio devi costruire le fortezze assediate. E poi difenderti dall’assedio.
Il giochino è in EA su Steam. L’ante™ sempre sul blog →
Ci tengo in particolare a spammare l’ultima uscita di
perché ha fatto (non che sia una novità) una cosa che ritengo essere il modo più sensato di parlare di giochini: usarli per buttare fuori i cazzi nostri.Devo farli i soliti ringraziamenti triti e ritriti a
che corregge, ai Patron che pagano un sacco di soldi ogni mese per sostenere Gameromancer, a te che sei arrivato qui in fondo? Dai, che palle.Ti spoilero piuttosto che siamo tutti un botto incazzati.
Da una notizia che riguarda Microsoft che sfancula un team DEI (diversity, equity and inclusion) interno – notizia che riguarda lo stato di salute dellə dipendenti dell’azienda, non i giochi che produce – si è arrivati a far schifo titolando e sostenendo il mantra “go woke go broke” assolutamente a cazzo di cane. Ma la spiega per bene arriva, tranquillə.
Innanzitutto mi brucia un po' il cazzo: non sono riuscito a essere il primo a commentare.
'tacci vostra.
Apparte le cazzate, ora vi sparo un pippone:
1. Fare il critico, nonostante vogliano vendere corsi di game journalism non vuole dire nulla: non esiste un critico più critico degli altri, esistono persone con differenti background culturali che formulano opinioni diverse a seconda del loro vissuto: non mi aspetto che la gente mi citi Nietzsche mentre gioca a 1000xResist o "Here" se la persona che me ne sta parlando non ha mai letto né qualcosa del filosofo tedesco né uno dei fumetti più strani mai creati, ma non per questo la sua critica è meno valida della mia: è semplicemente diversa, magari ama Fifa e Assassin's Creed, che a me fanno cagare ma non per questo il loro giudizio è meno importante del mio.
Che poi, importante per chi? Perché qualcuno dovrebbe dare un peso alle mie parole per un qualcosa che va esperito prima di dare un parere? È tutta questione di fiducia: se devi comprare un gioco cercherai pareri affini ai tuoi gusti, spostando la tua bilancia critica sul parere che ti sembra quanto più aderente al tuo.
Io non comprerei mai Fifa e so che gli appassionati si pallone non troveranno mai analisi su quanto la fisica della palla è realistica e di come l'arbitro è quanto più realistico e meno ingessato che mai.
Al limite te posso parlà del gioco di Holly e Benji.
Poi, questione museo: secondo me è giusto che i videogiochi siano nelle biblioteche, ma non penso che i musei sui videogiochi siano del tutto inutili.
Stando coi piedi per terra e aderendo alle regole del capitalismo ti direi che l'unica cosa che possono fare i musei è creare un contesto, o cercare un punto d'incontro con le altre arti e parlarne.
Io non ho visto la zona gaming del museo del cinema di Torino, ma la mostra che fa vedere le correlazioni tra cinema e videogioco ha perfettamente senso (se fatta bene) in quel l'ecosistema museale.
Il museo in sé, visto in ottica tradizionale penso debba fornire un contesto, un qualcosa che stuzzichi il visitatore magari che non ha mai provato nulla del nostro hobby preferito: secondo me ci sta pure la scelta di chiamare Cage, in quel contesto.
Comunque, ci sono musei in Italia, come Videoludica che funzionano molto bene: pezzi rari, console prodotte con pochissimi esemplari, cabinati vecchissimi, tutti contestualizzati.
C'è anche l'area sala giochi che permette di esperire di giochi arcade con parti e caratteristiche che non puntano a migliorare la qualità del cabinato originale con tasti e leve moderne, ma che cercano di replicare l'esperienza anni 80/90 della sala giochi.
Ovviamente però non è un museo che raccomanderei a chi i videogiochi non li conosce.
I videogiochi sono poco pratici, scarsamente immediati, dopotutto bisogna avere a che fare con leve e bottoni e a qualcuno potrebbe sembrare di star comandando una Gru e si godono in un lasso temporale più ampio di qualsiasi altro medium.
Anche perché bene gli arcade, ma per i giochi su console c'è bisogno di più tempo.
E allora ecco che luoghi magari come Bologna Nerd hanno sempre più senso: associazioni ludiche che mettono a disposizione, giochi, TV e console.
Posti di ritrovo in cui è possibile giocare, osservare, fare amicizia e magari comprendere dai più grandi perché Super Mario 64 è un gioco della madonna anche nel 2024.
Un gioco che mi dà le vibes dell'estate è Goodbay volcano high( che mannaggia a steam un giorno lo prenderò scontato)