Killed Instinct: come Microsoft ha ucciso due volte Rare
Vorrei bestemmiare ma non posso. Però porcodd–
Un sacco di stronzə stanno raccontando dei 9000 licenziamenti di Microsoft come se riguardassero al 100% la divisione gaming e non l’azienda nel suo complesso.
Questo non vuol dire che i licenziamenti siano da minimizzare, ma mostra come alla fine siamo il solito settore di improvvisati convinti che un’azienda che si sta giocando con Nvidia il primato come azienda da 4 trilion (che sulla scala anglosassone, che come sempre è a cazzo di cane, indica “solo” i mille miliardi e non il miliardo di miliardi. Ma sono comunque così tanti soldi che fai fatica ad immaginarli) possa finire per stracci perché Game Pass non è sostenibile (spoiler: Game Pass non è sostenibile. Ma lo dico da quando è stato annunciato).
Game Impasse
Riassunto a misura di normie: Microsoft il 7 maggio ha annunciato la chiusura di 4 studi nell’orbita ZeniMax (quindi Bethesda). Si parla di Arkane Austin, dev dell’incredibile Prey 2017 e di quella schifezza di Redfall, di Tango Gameworks (The Evil Within, Ghostwire Tokyo e Hi-Fi Rush), di
La divisione gaming in ogni caso è stata interessata da parte di questi licenziamenti, che si sono tradotti nella chiusura di The Initiative – lo studio pieno di ex Naughty Dog, Rockstar e altre aziende che ti fanno bagnare le mutandine – e conseguente cancellazione del remake di Perfect Dark e un ridimensionamento di Rare, con altra conseguente cancellazione di un giochino in sviluppo, cioè EverWild. La cancellazione di EverWild ha poi portato due figure storiche dello studio a rassegnare le loro dimissioni. Si tratta di Louise O’Connor, produttrice esecutiva del gioco e da 13 anni in Rare, e Gregg Mayles, che oltre a dirigere i lavori su EverWild è stato director anche per Sea of Thieves, designer per Viva Pinata, Donkey Kong Country e Banjo-Kazooie.
La storia di oggi è la storia di come Microsoft abbia ammazzato due volte uno studio che per tutti gli anni ‘90 ha fatto il bello e cattivo tempo nel gamedev.
Prima però come al solito tocca ai podcastini.
[podcast] Diablo Immoral: la morale nei videogiochi
La moralità nei videogiochi è tutta questione di punteggio.
Non ti comporti bene perché pensi sia giusto o male perché non te ne frega un cazzo, lo fai per le reward a livello di gameplay. Lo fai per sbloccare i poteri di Cole McGrath o perché sei alla seconda o alla terza run e sai che giocando in quel modo potrai vedere il finale che ti manca e sbloccare il relativo trofeo.
Nei videogiochi se ammazzi un cristiano e ne salvi altri 10 per la CPU sarai sempre un eroe. Anche se in realtà sei un assassino.
È più una questione di roleplay che di coscienza, anche perché se non ci sono conseguenze immediate per tantissimi di noi è come se poi non ci fossero. Eppure qualche esempio di sistema di moralità ben fatto c'è, ci prova, sapendo benissimo di finire a rovinare un po' l’esperienza di gioco perché in fondo ad essere buoni non c'è niente da guadagnarci.
Nei videogiochi come nella vita.
[segamentale] Rare Replayed
di Pietro “Fulgore” Iacullo
Ottobre 1994. Rare non lo sa, o forse lo immagina, ma da lì ad un mese diventerà uno dei team di punta di Nintendo (che possiede il 50% dello studio) grazie al successo di Donkey Kong Country. In quegli anni “videogiochi” fa spesso e volentieri rima con platform, e poter lavorare ad un platform per SNES usando un’IP di Nintendo è praticamente il massimo che si può chiedere alla vita. Soprattutto per un team occidentale. Soprattutto per un team europeo, visto che di solito se non è Giappone allora è America.
Ma in quegli anni lo zeitgeist ha due personalità. Non c’è solo l’approccio family friendly di Nintendo: i videogiochi si stanno rompendo il cazzo di essere considerati qualcosa per bambini – posto che era una stronzata già all’epoca, visto che ci giocavano pure personaggi tipo Matteo Messina Denaro – e da un paio di anni alcuni titoli stanno iniziando ad includere contenuti decisamente PEGI-18. Sono gli anni di Wolfenstein 3D e di Doom, ma soprattutto quelli delle audizioni al senato americano per colpa di un cabinato prodotto da Midway: Mortal Kombat. Un mese prima di Donkey Kong Country, Rare tira fuori Killer Instinct.
A guardare il curriculum di Rare, Killer Instinct sembra poca cosa.
Non sono solo quelli di Donkey Kong Country e della sua grafica pazzesca nonostante le cartucce e i 16-bit, o di quel Banjo-Kazooie che era l’unica vera alternativa a Super Mario 64. Sono anche le persone che hanno deciso che lo sparatutto in prima persona doveva funzionare anche su console e che con 007 Goldeneye hanno spianato la strada ad Halo e Call of Duty, e già che c’erano hanno mostrato un anno prima di Half Life quanto l’etichetta “Doom Clone” potesse stare stretta ad un’opera di questo tipo.
Con la consapevolezza che 30 anni di storia del videogioco ci hanno dato sappiamo benissimo che Killer Instinct non ha nemmeno mai sperato di poter avere un impatto simile a quello di Mortal Kombat. Ma il potenziale c’era, e soprattutto c’erano le idee. Killer Instinct prende da Midway l’idea delle fatality e la violenza gore ed esagerata dei combattimenti, ma studia anche a casa di Street Fighter per elevare il tasso tecnico del gioco (storico punto debole di Mortal Kombat). Soprattutto, Killer Instinct inventa il concetto di auto combo: basta premere i tasti della sequenza iniziale per far vedere i personaggi a schermo lanciarsi in una serie di attacchi che possono arrivare tranquillamente anche a 20 hit consecutive (che vengono ovviamente tradotte in punteggio come da tradizione arcade). Per mantenere il tutto bilanciato c’è il contrappeso delle combo breaker, mosse che rompono la serie di colpi dell’avversario.
Killer Instinct su arcade non andrà per un cazzo male, piazzando 17mila cabinati nel giro di un paio di anni. Non andrà un cazzo male manco il porting per SNES (chiaramente estremamente downgradato rispetto alla versione da sala giochi), eppure qualcosa ad un certo punto si rompe. Killer Instinct 2 non replica il successo del capostipite, e la conversione per console (Killer Instinct Gold su Nintendo 64) viene accolta in modo tiepido.
Dal ‘94 al ‘96 ballano solo un paio d’anni, ma all’epoca 2 anni erano un’enormità di tempo.
Oggi sembra strano perché (come ripeto alla morte) giochiamo e rigiochiamo giochi che seguono il design di roba uscita una decade fa tipo The Witcher 3. Viviamo un momento storico dove il videogioco è più codificato e non è più una frontiera, non viene sconvolto con la stessa frequenza di prima. A Killer Instinct 2 succede l’uscita di Tekken 2, e il picchiaduro inevitabilmente inizia a cambiare pelle per poi farlo definitivamente con l’uscita del terzo capitolo della serie del Pugno d’Acciaio. Il gore e la violenza non sono più così sexy, e la serie va in pausa fino al 2013, quando Microsoft decide di tirarla fuori dalla naftalina.
Il nuovo Killer Instinct però è soprattutto una creatura di Double Helix. Rare è coinvolta ma non è lo sviluppatore principale: Microsoft ha ormai relegato il team ai giochini sportivi per Kinect, e fino all’uscita di Sea of Thieves non gli farà sviluppare nient’altro a parte Rare Replay.
Ma un attimo, che c’entra Microsoft? Rare mica era un second party Nintendo? Sì, però il vizietto di comprare studi (e poi gestirli col culo) non è una roba che s’è inventato Phil Spencer, anzi. Nel 2002 Microsoft era entrata nel business delle console per opporsi disperatamente al monopolio PlayStation e, visto che Nintendo non aveva intenzione di comprare il 50% di Rare che ancora non possedeva, a Redmond ne hanno approfittato portandosi a casa uno dei team più poliedrici del circo del gamedev. Team che però sotto la gestione di Microsoft non riesce più a ripetersi. O meglio, in un certo senso è costretto a ripetersi, perché al netto di un paio di eccezioni viene messo a lavorare su reimpasti delle sue Proprietà Intellettuali. Il remake di Conker, il sequel di Perfect Dark, un altro capitolo di Banjo-Kazooie… Perfino il rifacimento per Xbox Live Arcade di Jetpac, vecchissimo gioco per ZX Spectrum e VIC-20 sviluppato da Rare prima ancora che si chiamasse Rare.
Poi appunto la decisione di spostare il focus dello studio su Kinect, fino a che Kinect non è diventato solo un costoso fermaporte che zavorrava Xbox One di 100€ sugli scaffali di Mediaworld.
Quando tutto sembrava finito però nel 2018 Rare fa quello che ha sempre fatto: si reinventa.
Sea of Thieves è qualcosa di nuovo nel portfolio di uno studio che, a questo punto, ha provato davvero a sviluppare di tutto. Qualcosa di nuovo che al lancio, complice il suo appellarsi by design quasi esclusivamente al gameplay emergente e alle situazioni che si vengono a creare in-game e l’assenza di tutti quei contenuti che arriveranno dopo, non viene capito dalla critica. Il pubblico però lo ama, altrimenti col cazzo che poi sarebbero arrivati i summenzionati contenuti. Oltre un milione di giocatori dopo due giorni di messa in commercio, nuova IP venduta più velocemente su Xbox One. Oggi il conteggio dei giocatori, complice anche Game Pass e l’uscita per PC (nel 2020) e per PS5 (l’anno scorso) supera i 40 milioni.
Eppure non è bastato a Microsoft per decidere di dare fiducia a EverWild.
E per carità, Microsoft coi soldi di Microsoft fa quello che ha sempre fatto, cioè il cazzo che gli pare, però il compito della critica è anche quello di dubitare. Soprattutto se si parla di chi cancella Scalebound e poi pubblica Crackdown 3.
Soprattutto perché i report parlavano di uno sviluppo che dopo un inizio travagliato tutto sommato stava procedendo bene, con diverse parti del gioco già giocabili.
Ma sopratutto perché Rare meritava decisamente di più da questa lunga parentesi in Microsoft, che può solo invidiare quello che s’era visto su SNES e Nintendo 64.
Essays on giochini di questa settimana
Nintendo per coerenza dovrebbe fare causa anche a Kojima Productions.
di Pietro “Phatejoker” Iacullo
A Kyoto se la menano da un anno sul fatto che il brevetto sul lanciare palle per catturare mostri è loro, costringendo Palworld a modificare alcuni elementi dietro la meccanica di cattura dei Pal.
Ecco, in Death Stranding 2 c’è letteralmente la stessa meccanica.
Ad un certo punto della storia si sblocca infatti una granata che permette di catturare le CA se si riesce a lanciargliene una in bocca dopo averla opportunamente indebolita, esattamente come facciamo dal 1996 in Pokèmon Rosso. Proprio per via della causa in corso tra Nintendo e PocketPair però poi le CA non vengono immagazzinate nella granata, ma in un cristallo che poi a contatto col catrame che compare quando si incontra una CA forma la creatura che era stata catturata.
Con l’ultima patch di Palworld infatti i Pal non escono più dopo aver lanciato una sfera Pal, ma compaiono direttamente a fianco del giocatore in modo molto più statico… Cosa che secondo Nintendo non è comunque abbastanza per rispettare il suo brevetto, e infatti la causa è ancora in corso.
Nei confronti dello studio di Hideo Kojima però, per il momento almeno, si è preferito non procedere.
Probabilmente perché far brutto con il nome più grosso di tutto il game developement non è facile come prendersela con uno studio giapponese di 60 persone.
Videoverse più che farmi rivivere i forum mi ha fatto rivivere l'adolescenza.
di Davide “Celens” Celentano
Quando ero piccolo non ho fatto in tempo a partecipare alle vecchie community ma sono arrivato in tempo per la nascita dei primi social network (o embrioni di essi) tipo Netlog, MSN, MySpace.
Quei posti in cui arrivavi principalmente per connetterti con i compagni di scuola e simili, tendenzialmente persone che già conoscevi o che comunque avevano un corrispettivo nel mondo reale nella tua testa.
E quante cazzo di volte sono stato Emmett.
Il tizio gentile, un po' impacciato, che per questo viene preso per sottone da quelli più smaliziati che se ne approfittano per farsi belli e sentirsi fighi.
Quello che si infatua della ragazzina che in realtà non lo caga, o almeno non nel senso che vorresti tu.
Ora Videoverse è morto e forse da una parte è meglio così.
Però almeno prima internet era per pochi, era solo un'estensione della vita reale, un posto dove fare emergere altre parti di te, un posto dove anche gli introversi potevano finalmente trovare qualcuno che si accorgesse di loro.
Ora gli esibizionisti, i rumorosi, gli urlatori seriali hanno fagocitato anche questo spazio.
E nei reels e nelle stories non c'è più posto per essere dei bonaccioni un po' impacciati.
Se ne vuoi di più, sul Sacro Blog™ c’è la rece
L'ultima follia di Lega Serie A "contro la pirateria" è far causa agli YouTuber.
di Pietro “OsticoMaAncheAgnostico” Iacullo
In quella che è probabilmente l'ora più buia mai vissuta dal calcio italiano, chi lo amministra ha ben pensato che una delle priorità dovesse essere lottare in aula di tribunale per far si che i diritti audiovisivi sulle partite di campionato si estendessero anche a quelle giocate su EA FC e eFootball "ispirate" a quelle reali. In particolare a stare sul cazzo sono le ricostruzioni dei gol, che secondo Lega Serie A vanno assimilate agli highlights delle partite.
Fortunatamente il tribunale di Genova ha risposto con un sonoro "col cazzo" a questa gigantesca stronzata.
Sono stati accolti al 100% gli argomenti difensivi portati dallo studio legale LEXIA, stabilendo ufficialmente che le azioni di gioco riprodotte tramite videogiochi "non costituiscono una rielaborazione grafica delle immagini dell'evento sportivo reale" e "non sono assimilabili agli highlights in quanto risultato dell'abilità del gamer, il quale ha a sua volta diritti soggettivi".
Qualche giorno fa Luigi De Siervo, Amministratore Delegato di Lega Serie A, aveva sostenuto che il calcio italiano stesse male per colpa della pirateria. Sembrava una stronzata già prima di avere l'ennesima prova provata che chi dovrebbe tutelare il nostro calcio sarebbe forse più adatto alla Lega Dilettanti, sì, ma allo sbaraglio.
Provo a fare risparmiare un po' di tempo e l'ennesima figura di merda a Lega Serie A: casomai vi venisse in mente di chiedere a chi porta i gameplay di EA FC di condividere i guadagni, ci ha già provato Nintendo anni fa.
Spoiler: non è finita benissimo perché abbiamo mandato in culo Nintendo. Ed era Nintendo, non Lega Serie A.
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Quando non ti rompiamo i coglioni il lunedì mattina col podcast o con la newsletter lo facciamo su Instagram, Tiktok e YouTube. Trovi un Amanda Reel quasi tutti i giorni, e per esempio nel corso la settimana ne uscirà uno in due parti dove si parla del discorso sostenibilità di Game Pass.
Un sacco di gente s’è accorta solo adesso che forse non è quella ficata clamorosa e senza nessuna conseguenza che si pensava nel 2020.
Benvenuti sul carro del vincitore. Lo guido almeno dal 2020.
[spammini] I morality system ci stanno rendendo immorali?
Se ti sembra un argomento simile a quello del podcastino, beh, è il format di Dissidenza Critica che si basa sul freebooting. Dopotutto Scibetta deve onorare le sue origini siciliane, no?
Il problema sta in come raccontiamo le cose.
Abbiamo trasformato 9000 licenziamenti in un attacco alla sostenibilità di Game Pass per spacciarci da fini analisti, senza tenere conto del fatto che Microsoft sta tutt’altro che male e che il punto di questi tagli sta nel capitalismo.
E andrà sempre peggio, perché una società capitalista che ha sbloccato l’achievement dell’Intelligenza Artificiale non può che arrivare al collasso.
Siamo qua che ci preoccupiamo di ChatGPT e di quanto sia lecito che permetta di generare delle immagini “stile Ghibli”, ma questo è solo uno dei tantissimi tavoli su cui dovremmo iniziare a puntare i riflettori. Nel nanosecondo in cui l’industria dei trasporti sarà pienamente automatimazza rischiamo di finire dritti in Mad Max, visto che si parla dell’industria che sfama più persone al mondo. Solo in Italia sono una cosa come 8 punti di PIL.
In tutto questo continuiamo a guardare e misurare le cose solo con i giochini. A pensare che i giochini abbiano il lusso di essere una cosa altra, che non partecipa a questo Gioco del Trono che è la nostra società e quindi pare brutto attaccare Microsoft perché supporta Israele e farne una questione morale/ideologica/inserisci qui parola respingente di tuo gradimento.
Il problema sta in come raccontiamo le cose.
Soprattutto quando decidiamo di raccontare qualcosa che non è il nostro per sentirci a tutti i costi protagonisti, come c’ha insegnato il capitalismo, finendo per usare perfino il sentimento anticapitalista come modo per posizionarci.
Non siamo poi tanto diversi da Microsoft nei confronti di Rare, noi nei confronti di Marx.
Nella torre del suo lugubre antro nella valle del Monte Refusi la perfida strega Typilda sta interrogando il suo calderone Dingpot per sapere chi sia la più bella del reame. Sulle prime esso risponde facendo il nome di lei, salvo poi correggersi e rispondere che la più bella del reame è un'orsetta di nome Tooty, la quale vive nella valle assieme al fratello
e un'uccellina di nome Kazooie.