Shawn Layden aveva ragione. Gli abbiamo dato del terrorista, dell’Osama Bin Layden, troppo tronfi e troppo presi dall’entusiasmo per l’imminente next-gen che ad oggi, circa a metà del suo ciclo vitale, di next ha portato giusto l’azzeramento dei caricamenti grazie agli SSD.
Il videogioco ha preso una piega che diventa ogni giorno sempre meno sostenibile. Sono anni che costruiamo i nostri momenti di escapismo sulla pelle di chi il videogioco lo fa, sbraitando pure quando ci si racconta il dolore e le rinunce che ci sono dietro l’industria. “Faccio il camionista e mi alzo alle 5 di mattina, che mi frega se per giocare il prossimo The Last of Us qualcunə dall’altra parte del mondo non esce dall’ufficio per qualche mese?”. Mal comune, mezzo gaudio e diamo pure dellə stronzə a chi prova a parlare della situazione.
Dello stato di salute delle persone che lavorano nei videogiochi non ce ne frega una mazza, e di conseguenza pure lə big creator non ne parlano. Se non per fare i loro interessi dando dell’infame a Jason Schreier perché sbirra GTA VI, poco importa se forse è proprio grazie a lui che in Rockstar adesso c’è una cultura del lavoro leggermente più sana. Crunch, licenziamenti, molestie e violenze sul posto di lavoro... Chi ne parla lo fa per la polemichetta, perché non concepiamo ci possa davvero essere un interesse reale. Bisogna giocare e basta, no?
E questo è solo quello che riguarda i giochini di per sé, la cosa che abbiamo provato a raccontare in podcast. L’editoria non sta per un cazzo meglio. Anzi.
Di solito a Capodanno ci si lustra il cazzo e ci si racconta quali gloriosi propositi ci sono per i prossimi 365 giorni. Quest’anno sono 366 visto che il 2024 è bisestile. E ho paura che quel giorno in più farà schifo esattamente come tutti gli altri. È un giorno in più per il padrone, per essere tossici, per provare a consolidare la propria posizione in un mondo di squali e poi far finta di essere tutti fratelli e sorelle agli eventi stampa, sempre che ne organizzino ancora per la “stampa”.
In ogni caso andiamo prima coi soliti spammini, va.
Chi è che può definirsi davvero “giornalista” nel movimento videoludico italiano?
Di Davide “Celens” Celentano
Secondo Wikipedia giornalista è chi “si occupa di scoprire, analizzare, descrivere e scegliere notizie per poi diffonderle”. L'ultima volta che è successa una cosa del genere venne anticipata la data dell'annuncio di Death Stranding e di cronoacqua sotto i ponti direi che ne è passata.
Questa professione dovrebbe fornire un servizio di informazione al pubblico, invece finisce per offrirne uno di PR alle aziende, che in questo paradosso diventano i loro clienti reali.
Le informazioni che ci mettono a disposizione sono reperibili direttamente dalle fonti ufficiali di chi i giochi li sviluppa o li produce, al massimo al costo di qualche clic in più.
Oppure sono reperibili direttamente dai social dei cosiddetti “insider”, aka coloro che hanno annunciato GTA 6 almeno una quindicina di volte negli ultimi anni. Tanto che verrebbe da invocare il karma pensando a chi si è lamentato dei leak rovina-aggregazione.
Al massimo opinionisti quindi, ma la tua opinione alla maggioranza interessa solamente perché tu hai il gioco e loro ancora no. E questo grazie al servizio di PR di cui sopra.
Giornalista videoludico in Italia significa questo. Ma viviamo in questa costante allucinazione collettiva in cui si fa finta di niente.
Chissà a chi farà mai comodo.
A Highland Song è il videogioco di Max Pezzali.
Di Pietro “Phatejoker” Iacullo
Sarà perché c’è un filo conduttore tra le highland scozzesi e quella cittadina nel cuore della pianura padana che risponde al nome di Pavia, e quel filo conduttore è la nebbia. Sarà che Moira alla fine finisce come Max a raccontare una generazione, traducendo in gameplay lo stato d’animo dell’outsider, dell’underdog, dellə sfigatə che però ci prova e scopre che solo chi ci prova è all’altezza del fallimento, del provare a ragionare una stella o il mare e anche non raggiungendola affermare la propria esistenza. Sarà che non sto bene con la testa e se qualcosa mi riporta alla mia proto-adolescenza penso invariabilmente agli 883.
Chi è deserto non vuole che qualcosa fiorisca in te. Quanto cazzo è vero. Quanto cazzo descrive A Highland Song.
Si potrebbero azzardare paragoni azzardati con gli ultimi Zelda e declinare A Higland Song così, un gioco basato sull'esplorazione dove sostanzialmente tutto quello che si vede sullo schermo è raggiungibile, in un modo o nell'altro. Non sarebbero nemmeno così azzardati questi paragoni, in realtà. Ma il core — il cuore — sta da un'altra parte. È quello di Moira, che decide di lanciarsi fuori dalla sua zona di comfort ponendosi un obiettivo che poi se non viene raggiunto poco male, la cosa importante era crederci laddove non ci ha creduto nessun altrə.
Non siamo l'elenco delle vette che abbiamo raggiunto e di cui abbiamo capito il nome. Siamo le cose che ci sono successe. Siamo come le abbiamo affrontate.
Siamo quella nebbia che ci ricorda casa e quel desiderio di raggiungere il mare, poco male se non ci arrivi entro il tempo stabilito a priori da qualcun altrə. È la tua vita, devi viverla come cazzo ti pare.
Soltanto chi non fa non sbaglia. Soltanto chi non sbaglia non vive.
E sarò sempre grato a Moira per averlo ribadito in un giochino.
SAVE THE DATE, MANNAJUSTANT!
Questa settimana su torna su Twitch e si parla di Jusant con l’alcol in mano. Perché la critica a noi piace così: etilista, non elitista.
Save the date per giovedì 4 gennaio.
Ma voi ve lo ricordate quando la Disney faceva roba woke, ma per davvero?
Di Alessandra “Yachan” Stefanelli
In questi giorni è arrivato al cinema Wish, l'ennesimo film del 2023 della casa di Topolino. Quasi tutti sono stati dei flop di critica, ma soprattutto commerciali. Che è poi l'unica cosa che in realtà a loro interessa. E la colpa di chi è? Del politicamente corretto, ovviamente.
Nei giorni scorsi il capoccia della Disney Bob Iger ha fatto sapere che d'ora in poi la major si concentrerà sull'intrattenimento e non sulla volontà di 'veicolare dei messaggi'. E la mia mente torna a quando Topolino era woke davvero, quando portava al cinema il Gobbo di Notre Dame. Emarginazione, body shaming, abilismo, razzismo (pur con tutti i limiti del caso e in un modo non esente da criticità) brutalità delle forze dell'ordine, violenza di genere: c'era tutto nella storia di Quasimodo.
È il caso più eclatante, ma non l'unico. Per anni la Disney nei prodotti per bambini ha veicolato messaggi, ha portato sul grande schermo personaggi maturi, ha messo in scena violenze e traumi veri, eppure mai nessuno l'aveva additata come 'woke', anche quando negli ultimi classici - anche Pixar - di woke c'è davvero poco.
L'inclusione è diventata un velo sotto cui nascondere l'assenza di idee, un colpevole da additare quando il box office non è quello sperato. Se La Sirenetta nera va male al cinema tanto la shitstorm se la becca Halle Bailey, no? Se The Marvels registra uno dei peggiori incassi di sempre nel MCU è solo perché ci hanno messo dentro tre donne. E poco ci interessa se l'unico aspetto realmente queer del film (il rapporto tra Carol Danvers e Valchiria) è stato poi tagliato nella versione finale del film.
Negli ultimi anni la Disney non ha davvero mai osato su nulla, anche Wish non è altro che un riciclo di idee passate. Non sarà forse il caso di tornare ad essere woke davvero?
Avengers Endgame ma Thanos ha il tesserino da pubblicista
Che l’editoria (quella videoludica, ma in generale un po’ tutta) stia una merda non lo dico io. Per quanto riguarda lo scenario nazionale fuori dal videogioco ne avevam parlato in un vecchio DLC dove una persona che scrive sulla stampa “tradizionale” raccontava un po’ di paghe e retroscena, e di come a volte venga tolto spazio ai contenuti perché i cruciverba alzano la tiratura.
Per quanto riguarda i giochini, beh, a queste latitudini il 4 novembre 2022 chiudeva Eurogamer Italia. Qualche mese fa la verticale videoludica di Tom’s Hardware, Game Division, ha lasciato a casa un sacco di collaboratorə freelance, e più avanti nell’anno ha chiuso gli uffici fisici. Una delle penne di SpaccioGames lamentava a ridosso dell’uscita di Tears of the Kingdom l’esclusione dall’evento pre-lancio dedicato al gioco, cui invece hanno preso parte diversi profili che ormai vengono definiti “influencer” (che è una cazzata perché pure facendo giornalismo puoi fare influencing in senso stretto, ma il binarismo ci piace troppo per rinunciarci evidentemente). Più indietro ancora c’è stato un esodo di personalità anche da IGN, con — per esempio — Gianluca “Ualone” Loggia che ha deciso di staccarsi dalla pubblicazione curando autonomamente i suoi canali sia lato social che lato contenuto.
EDIT: manco a farlo apposta finito di scrivere questa newsletter IGN Italia ha annunciato un cambio di vertice.
All’estero le cose non vanno per nulla meglio. Vice quest’anno ha chiuso Waypoint, il Washington Post ha chiuso Launcher — erano le loro verticali sul gaming — e ci sono state diverse fuoriuscite dall’editoria. Anche di nomi importanti, che han preferito fare una mossa per certi versi simile a quella fatta da Ualone da noi (o ancora più indietro da Antonio Fucito con Gameplay Cafè) mollando l’editoria mainstream per fondare i loro progetti su cui hanno il 100% del controllo, senza editori (vedi per esempio il caso Aftermath). Ah, e una mesata fa ReedPop ha messo in vendita Eurogamer (quello internazionale), VG247, Rock Paper Shotgun e altre pubblicazioni legate ai videogiochi. Potrei fare un elencone di avvicendamenti, chiusure e vendite. Non so se sarebbe utile. Non credo sarebbe di qualche conforto.
Il punto del discorso è che siamo all’endgame del modello editoriale come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi.
Non ci sono prospettive tali per cui si possa dire che il 2023 sia stato semplicemente un annus horribilis, è semmai l’anno in cui la cosa è diventata più chiara. I siti di videogiochi sono sempre più ostaggio dei diktat degli editori, che chiaramente giocano questa partita per massimizzare i profitti. E per massimizzare i profitti la strada è quella di assecondare Google, scrivendo contenuti che compiacciano l’algoritmo e intercettino i trend di ricerca che via via si formano.
E i trend che si formano lo fanno sulla base di quello che la gente cerca, quindi di quello che l’hype spinge.
In tutto questo va pure aggiunto che — appunto — le aziende stanno spostando il loro focus da quella che chiamiamo editoria a quellə che chiamiamo influencer. Le regole di ingaggio non sono poi così diverse, ma lə influencer presidiano le piattaforme dove poi in effetti i videogiochi si vendono davvero, Twitch e TikTok soprattutto. Una recensione non sposta un gran cazzo in termini di acquisto e oh, è plausibile che il Multiplayer.it della situazione smetta di parlare di GTA VI per linea editoriale perdendosi tutto il traffico generato dalle notizie sul gioco? LOL NOPE, quindi a che pro fare un trattamento di favore? Il manico del coltello è già dalla parte delle aziende. Credo che sia troppo tardi per invertire la tendenza: in questo scenario l’unico potenziale selling point dell’editoria poteva essere la deontologia professionale, cioè quella cosa che nei fatti non c’è mai stata perché già dagli anni ‘80 e ‘90 era più fico andare ai festini e agli eventi spesati da Microsoft che fare il proprio lavoro.
Chi fa l’editoria peraltro, quantomeno nel caso italiano, spesso e volentieri è un nome che c’era già all’epoca e quindi il problema sul piano deontologico manco lo percepisce, per lui è sempre stata la normalità quindi è normale — vedi non a caso quanta gente s’è incazzata quest’anno quando a queste coordinate si è deciso di parlare della pasta di PlayStation. E con incazzata intendo “ha provato a farmi buttare fuori da The Games Machine alla prima mezza occasione strumentalizzabile”.
Non si può invertire la tendenza, ma si può costruire delle isole dove i comportamenti sbagliati — o quantomeno, quello che secondo la sensibilità di chi ci sta dietro è un comportamento sbagliato — sono tenuti fuori. Aftermath è un esempio, ma progetti con una filosofia simile ce ne sono un sacco, specie all’estero. Chiaramente fuori dall’Italia sulla carta è più semplice, perché il pubblico potenziale non è 20 milioni di giocatorə ma quasi 4 miliardi di persone che giocano. C’è molta più concorrenza, ma un bacino enorme e — opinione personalissima — anche una tensione diversa alla Game Culture, perché qua da noi non si è abituati a pagare manco per i videogiochi, figurati per i loro approfondimenti.
All’estero peraltro la concorrenza non è sempre ostile, tant’è che profili diversi mettono a fattor comune i loro contenuti dietro lo stesso paywall, una cosa che in Italia vedo molto difficilmente realizzabile.
Non si può invertire la tendenza, ma per come la vedo io — che è praticamente 5 anni che mi occupo attivamente di critica alla critica — le storture dei sistemi tradizionali sono sempre più evidenti. E davanti a queste storture sempre più gente va alla ricerca di alternative. Non è casuale che anche in una provincia della Game Culture come l’Italia ci sia stata un’esplosione di newsletter a tema, nell’ultimo biennio. Come non è un caso che si stia (ri)scoprendo il podcast. Si brama un approccio più slow, che esca dall’ossessione di pubblicare un centinaio di notizie al giorno senza approfondirne nessuna e di essere live tutte le mattine con i vari format a colazione con Salcazzo. È logico che non sarà mai l’approccio della massa, che ormai è abituata all’app di Google che ti propone ogni mattina qualche contenuto e alle notifiche dellə propriə streamer del cuore che va in diretta a cui lanciare i bit addosso, ma delle isole è possibile crearle. Se basti, non lo so. Probabilmente no.
Ma per me fanno la differenza.
Spammini Tattici Nuclerari™
Questa settimana ho deciso di spammare un po’ di cosine che hanno un approccio slow che mi piacciono, rimanendo nello spirito dell’editorialino qui sopra.
Altre isole, con cui mi piacerebbe interagire affinché si diventi assieme un arcipelago. Il mondo non possiamo più salvarlo, ma possiamo portare avanti più voci assieme mettendo da parte ‘ste cazzo di gelosie che poi altro non sono che un’emanazione del capitalismo, talmente radicato in noi che vediamo tutto come se avesse gli stessi connotati di Erika De Nardo e Omar Favaro.
Non posso che iniziare da
. L’ho detto un milione di volte e lo ripeto. Se segui Gameromancer è un lavoro assolutamente complementare a quello che si fa qui: la nostra è critica (buona o cattiva che sia), quello di Massimiliano è giornalismo. Ma di quello fatto bene. Quest’anno spero di portare Massimiliano in podcast e registrare qualche bel DLC assieme. Magari proprio su questi argomenti, perché sono tutte paure che condividiamo. fa un esercizio di critica alla critica molto fico, cioè prendere le varie recensioni/anteprime/contenuti sui giochini e ragionare su perché e per come vengono usate certe parole. Fuori da questi momenti ci sono spazi dove Zave racconta com’era e com’è il videogioco o spiega alcune delle buzzword che spesso e volentieri usiamoCon Zave prima o poi vorrei parlare di una roba che forse manco lui si ricorda, ovvero quella volta che è stata l’unica penna in Italia a “dare addosso” a Gravity Rush. Non perché sia d’accordo (io amo Gravity Rush, o quantomeno all’epoca lo amavo) ma perché ho apprezzato molto la coerenza nel ribadire la posizione con Gravity Rush Remastered e col 2 e perché oh, è bello leggere pareri diversi dal proprio. Fa crescere. E mega rispetto per chi non ha paura di andare unpopular.
Le newsletter sono una risposta. Ma la mia risposta preferita rimangono comunque i podcast. Storie di Videogame è una cosa che si può definire solo con l’espressione “fichissima”. Chi c’è dietro, è un gigante anche a livello umano. Poi ok, non ti interessa e vuoi separare l’opera dall’autore, ci sta (non concordo), ma Andrea Porta è davvero enorme. Spero di farci un sacco di altre cose assieme. Intanto beccati una delle puntate che preferisco di più di Storie, perché insomma di Levine si parla sempre troppo poco e mai dati alla mano.
Altro podcast un sacco fico, un sacco indie e insomma piglia nota è Enciclopedia dei Videogiochi. Ace e Hiyuga ne sanno, si respira proprio Game Culture interagendo con loro. Conservo un ricordo molto positivo della puntata dove ci hanno ospitato a tema Shadow of the Colossus.
E peraltro son stati tipo l’unico podcast a ricambiare l’invito quando s’è provato a fare cross-podcasting. Tocca che ci risentiamo.
L’invito è circa il solito. Vuoi fare cose con noi? Scrivici. A meno che non venga fuori che voti CasaPound o sei unə insostenibile idiota non diciamo mai no a priori.
Quello che vorrei portare nel futuro di Gameromancer sono queste sinergie qua. Vorrei che parlassimo di più con i profili di cui abbiamo stima, che la gente in generale si facesse meno problemi ad alzare la manina e dire “secondo me qua hai sbagliato e mo ti spiego perché”. Un po’ di persone che provano a farci da grillo parlante ci sono. Anche qua, spesso non concordo, ma ascoltare le ascolto sempre.
Un’altra cosa che vorrei portare nel futuro di GR, come in quel giochino indie uscito lo scorso 31 gennaio che poi non si è inculato tendenzialmente nessunə, sei tu. Perché insomma, se sei arrivato qui in fondo sei anche tu una cosa preziosa. E magari anche tu non concordi sempre, ci sta, ma assieme almeno la parvenza di un bandolo in questa matassa fin troppo capitalista che chiamiamo videogioco possiamo trovarla.
Non ti chiedo di contribuire su Patreon o di subbarti su Twitch. Sai che esistono nel caso. A me basta un like, una ricondivisione, un commento qui sotto che dica “ci sono”. Tutta roba gratis. Per fortuna le cose migliori nella vita lo sono ancora, anche se non so per quanto.
Quest’anno vorrei continuare a proporre dei long-form audio su Patreon dietro paywall (perché quando si parla male dei giochini poi se no la gente dice che “lo fai per la visibilità”, e invece vorrei farlo per te e per me, argomentando per bene e confrontandoci) e ci sono un po’ di idee per Twitch, al di là degli eventi fatti negli scorsi anni.
Sarà tutto sostenibile, non aspettarti più di una diretta alla settimana. Ma ne varrà la pena.
Grazie per le parole, come sempre. Sai quante volte ho provato a capire come riuscire, bene, a mettere sotto uno stesso cappello progetti che condividono una stessa idea del videogioco? Però non ho ancora raggiunto una risposta
Il fatto è che dividere in un certo qual senso polarizza e crea più discussione sui social: "Il noi vs loro" funziona da entrambe le parti.
Il fatto è che per quello che vedo da parte della stampa, sono solo lamentele verso un modello che sta cambiando.
Un tempo alcune persone si lamentavano dello shift dal cartaceo al digitale,oggi altre lo fanno per il modo diverso di fruire i contenuti.
Ma quelle stesse persone, stanno cercando di adattarsi e al tempo stesso criticare i propri colleghi "influencer"
È ovvio che sia Everyeye che Multiplayer ci stanno puntando, mi capitano un boato di reels di Laurino che fa le faccette buffe, ma il problema per me è di base contenutistico: è chiaro che i portali non riescono a fare un'informazione appropriata, ma il loro apporto sui social, a livello di informazioni, com'è? Lo stesso, identico, delle news che pubblicano.
C'è da rivedere un attimo la scrittura dei contenuti, e cercare di accalappiare l'utenza per stimolarla a approfondire.
Ci proveremo, nel 2024.