Random Access Memories
Quando i videogiochi diventano un accesso casuale alle nostre memorie
Baciami le Palworld, stampa di settore, perché sul “pokémon con le pistole” non stai capendo semplicemente un cazzo.
Non solo, stai pure facendo una disinformazione terribile nella speranza di capitalizzare qualche interazione sull’odio nei confronti dell’ultimo fenomeno che il circo mediatico del medium ha prodotto. Mi parli di IA, di plagio, di indagini da parte di The Pokémon Company e di Sam Barlow che definisce Palworld volgare, omettendo poi che è tutto finalizzato ad accendere i riflettori sui suoi nuovi giochini in sviluppo.
Che poi Barlow ha pure ragione, nel senso che Palworld è “volgare” nella stessa accezione della Commedia di Dante, quella per cui parla la lingua del volgo. E la lingua del volgo, nel 2024, sono i meme.
A noi dovrebbe interessare cosa c’è sotto di questi, e quello che c’è sotto è una gigantesca critica al capitale e alla società di oggi.
Io e Fra stiamo lavorando a [non si può dire]. [Non si può dire] ci sta assorbendo un sacco di tempo e soprattutto di risorse mentali. È in questi momenti che secondo me viene fuori il vero valore delle persone che ti stanno vicine: è facile giurare eterno amore al mattino e poi andarsene quando la sera non c’è un gran cazzo per cena, tutto un altro discorso invece mettersi lì e inventarsi una ricetta con quello che è rimasto nel frigo per fare in modo che chi non ha tempo di cucinare mangi.
Questa settimana cucina il Cummenda Calzati, che s’è fatto carico dell’editorialino della newsletter. In realtà te ne sei fatto carico anche tu, forse, perché la copia di Another Code: Recollection viene fuori dai soldi di Patreon. Che poi è il motivo per cui in questa settimana assurda comunque 20 minuti per registrare un rolexino™ me li son ricavati.
Comunque, oltre al Cummenda condiscono i soliti Celens e Amaterasu, senza i quali ogni settimana questo sforzo sarebbe molto più povero e meno autoriale. Noi ci sentiamo nei podcast in allegato e ci leggiamo alla fine. Avevo bisogno di ringraziarli anche qui, però.
Va bene che non è bello giudicare un gioco dai primi minuti, però bisogna anche che l’interesse sia un minimo catturato.
Di Davide “Celens” Celentano
“Qui sembra che l'unico tra noi due che sta facendo uno sforzo per evitare che io ti droppi sia sempre io” per citare una serie poco conosciuta.
È quello che mi è successo con The Witness oppure con (apriti cielo) Outer Wilds. Non ho trovato l’hook giusto, mi sono sentito come se io stesso dovessi forzarmi ad andare avanti perché sì, perché mi avevano detto che il gioco era bello e quindi “MUTO!” e cammina, e non perché si fosse guadagnato attivamente la mia attenzione e il mio impegno.
La narrativa ambientale e silenziosa è figa ma è molto delicata. C'è bisogno, almeno io ne ho bisogno, di un qualcosa, che sia una meccanica di gameplay, un mistero da risolvere, un mostro figo da uccidere, qualsiasi cosa.
E quando non la trovo mi stanco istantaneamente. E sì, droppo, forte.
Probabilmente nei due casi specifici di cui sopra un giorno ci riproverò. I giudizi positivi sono troppo lusinghieri, numerosi e autorevoli per non farlo.
Ma carə dev, se mi state leggendo, sappiate che il merito non è di certo il vostro.
Se c'è una roba che mi ferma dal rigiocare un titolo è "QUELLA PARTE".
Di Richard “Amaterasu” Sintoni
Davvero, prendete un titolo a caso dalla libreria e rifletteteci bene: ogni giochino ha QUELLA PARTE. Quella sezione di gameplay di merda che ha messo alla prova i vostri nervi e la vostra pazienza e che piuttosto che rifarla vi cavereste gli occhi.
Ed è fantastico pensare a quanto sia comune e variegata questa cosa, perché saltiamo dalla missione sott'acqua di Devil May Cry, che chicazzo gliel'ha fatto fare di metterla, al labirinto di Silent Hill 2, che non ci credo che se James avesse saputo cosa lo aspettava lì sotto non sarebbe tornato in auto a passi lunghi e ben distesi.
E quando va bene sono parti velocissime e rushabili, roba che in dieci minuti te la levi dai coglioni e non ci pensi più. Ma quando si tratta di sessioni lunghe e monotone a ripensarci la voglia di rifarle te la fanno passare in uno schiocco di dita.
Davvero, c'è in tutti i titoli "QUELLA PARTE" che si fa odiare e che per il bene del mio backlog mi frena dal rigiocare per l'ennesima volta un giochino che ho già finito.
Pure nei titoli del cuore, quelle bestie sacre e intoccabili come Final Fantasy X.
Che piuttosto di rifarmi il Tempio di Bevelle preferisco abbattere Anima a mani nude inr.
Me lo ha detto mio Kojima: il contesto del videogioco
"What we propose to do is not to control content, but to create context"
– Hideo Kojima, Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty (2001)
Metal Gear Solid 2 ha predetto la società in cui viviamo oggi ed è un discorso che ormai è banale da tirare fuori. Come è banale la citazione con cui ho aperto questo copy del cazzo per convincerti a pagare per 21 minuti di delirio registrati in macchina e per non farsi mancare nulla pure ottimizzati tramite l'IA (quella di Adobe, non JW).
Però ecco, come si applica la citazione sul contenuto e il contesto al videogioco di oggi? Cosa vuol dire per la chiacchiera attorno al medium? Spoiler: cose brutte.
Su Patreon puoi uscire 5€, due canne, dai per ascoltare l’episodio oppure attivare la trial gratuita di 7 giorni e accedere a tutti e 148 i Gameromancer col Rolex™.
Hai già pagato? Bene, allora puoi sentire il tutto direttamente da Spotify. Ganzo il capitale, ah?
Noi non avevamo Spotify, avevamo il menu di FIFA.
Di Pietro “Phatejoker” Iacullo
Quanto cazzo devo ad Electronic Arts? Molta della mia cultura musicale dipende da quello che succedeva dopo che quel vocione baritonale dicesse "EA SPORTS - It's in the game".
È lì che ho scoperto i Blur, grazie a quel FIFA '98 giocato aspettando il primo mondiale di cui avrei conservato un ricordo. Le figurine della Nazionale che IP regalava facendo benzina che aveva ancora il piombo, il non-gol di Baggio, Paolo Maldini sulla copertina del gioco.
Ricordo gli Apollo 440 e Stop the Rock, in quell'improbabile FIFA 2000 dove con i trucchi potevi far rapire i giocatori dagli alieni. Ironicamente anche quell'anno poi la Francia c'ha purgato male a EURO 2000.
I Daft Punk in FIFA 06, i Gorillaz nel 2002, perfino Avril Lavigne con Complicated in FIFA 2003.
Oggi abbiamo algoritmi che ci suggeriscono cosa sentire in shuffle sempre più sgamati nel proporci cose che sicuramente ci piaceranno, ma che ci confinano nella nostra zona di comfort. Complicated Spotify non me l’avrebbe mai suggerita visto quello che ascolto di solito.
Non voglio dire che si stava meglio quando si stava peggio. Voglio dire solo che FIFA è stato molto più importante di quello che pensiamo per la mia generazione.
A FIFA abbiamo giocato tuttə almeno un paio di volte.
Risento l’eco di quelle partite ogni volta che creo una playlist.
Indiecazioni
Le indiecazioni di questa settimana sono firmate da Gabriele Gangemi, co-founder di Kido Onion Studio – che poi sono le persone dietro River Tails: Stronger Together di cui trovi agevolmente la rece sul Sacro Blog™. Se ti interessa approfondire con Gabriele s’è fatta una live qualche settimana fa, che trovi in replica su YouTube o in formato podcast. In ogni caso:
Per me sono "indie" tutti quei giochi che con coraggio sperimentano meccaniche fresche e possono non essere perfetti tecnicamente ma pieni di cuore e creatività.
Semplice, conciso, efficace. Genuino, soprattutto. Le altre indiecazioni sono anche queste sul blog, tutte in ordine di arrivo. Se ti vuoi aggiungere alla discussione basta un fischio.
Spammini Tattici Nucleari™
I giochi nella Tempesta
È sempre molto positivo quando è chi fa i videogiochi a raccontare che sta succedendo nei videogiochi. In questo pezzo Matteo Sciutteri spiega per bene com’è che si parla da un bel po’ di mesi a questa parte di licenziamenti folli nell’industria del giochino. Era l’argomento della prima puntata del podcast di quest’anno, terrà banco per tutto il 2024. Brace yourself.
E intanto leggi su Medium →
It Happened To Me: I Was A Daily Video Game Blogger
Di questo invece si parlava nella prima newsletter di quest’anno: parallelamente ai giochini che vanno a troie succede la stessa cosa all’editoria di settore. Questa settimana sono inciampato in una discussione dove si disquisiva sul valore di rendere tutto questo un lavoro. Ha i suoi pro e i suoi contro. I pro sono soprattutto nella spendibilità a livello “istituzionale” quando dici le stesse cose che dico io che sono uno stronzo qualunque. I contro è che puoi dirle fino ad una certa nel nostro panorama nazionale. All’estero è nata una cosa tipo Aftermath, e Gita Jackson l’ha usata per raccontarsi.
A te l’onere di leggerla. Ovviamente su Aftermath →
Edmund Burke avrebbe giocato a Elden Ring
In questo periodo folle di cose volevamo pure parlare un attimo del rilancio di Pop-Eye. Non c’è ancora riuscito, ma lo facciamo appena possibile, promesso. Intanto nel topic spammini™ del gruppone Telegram Join The Rebellion Alfredo Savy ha riproposto questo vecchio pezzo, che adesso gira sulla nuova UX del sitino.
E quindi clicca un po’ sull’ennesimo sito di cultura pop che ci ruba il lavoro →
I videogiochi come luoghi della memoria
Di Stefano “SteLynch” Calzati
In questi giorni sto ri-giocando Another Code: Two Memories, nella recollection appena uscita su Switch. È un titolo gradevolissimo, un’avventura grafica entry level, pensata per essere approcciabile da tutti, che era poi l’idea perfetta per presentare il genere alla platea di Nintendo DS, all’epoca, e rimane perfetta oggi, col suo ritmo rilassato e la sua bella storia, un po’ Casper, un po’ thriller sci-fi. È un titolo che ho sempre adorato, un po’ come tutti quelli firmati Cing, ed è un gioco che mi ha stimolato un ragionamento su cui, in realtà, rifletto da tempo. Another Code è un’opera che parla di memoria: persa, ritrovata, alterata.
Ashley, la protagonista, ha perso i genitori quando aveva 3 anni, il papà scomparso, creduto morto, la madre uccisa a sangue freddo mentre lei era chiusa nell’armadio, a pochi passi. Un inaspettato messaggio del padre, però, la convince a partire per Blood Edward Island, dove l’uomo le promette di incontrarla e spiegarle tutto. Una persona di cui ha pochissimi ricordi, un vuoto da colmare, ciò che non è mai stato possibile fare o dire, da recuperare. L’altra memoria a cui fa riferimento il sottotitolo del gioco è quella di “D”, il fantasma di un ragazzino morto 57 anni prima che Ashley incontrerà quasi subito. Una memoria in pezzi, frammentata dal trauma ma recuperabile, pezzo dopo pezzo, facendola riemergere dalle nebbie del tempo, addentrandosi nella villa che è stata casa sua e che, ancora, custodisce i suoi ricordi.
Due vicende che si sovrappongono, destinate a intrecciarsi e completarsi.
La dimensione spaziale del videogioco, la gestione del ritmo, la possibilità di usare la narrativa ambientale legandola all’interazione, rendono il medium il luogo ideale per indagare un tema del genere. Perché la casa, ma in generale i luoghi, sono un vespaio di stimoli. Pensate alle case della vostra vita, quelle dei nonni, dei genitori. Quegli oggetti, quei profumi, quelle particolari tonalità di luce che filtrano dalla finestra a determinate ore del giorno. Laddove letteratura e cinema fanno posare gli occhi dove vuole l’autore, escludendo il superfluo, la tridimensionalità del videogioco stimola a vivere quegli spazi come faremmo nella realtà, indugiando magari su dettagli inutili ai fini ludo-narrativi. Osservare le finiture dell’arredamento, quanti piatti ha un servizio nella credenza della cucina, il rumore che fa il parquet quando ci si cammina sopra. La nostra memoria si mescola a quella dei protagonisti, si crea un legame, un momento di condivisione e vicinanza dove si trascende il gameplay e si riesce a “vivere” l’ambiente.
Lo stesso Hotel Dusk, dell’omonimo capolavoro di Cing (sempre loro), diventa un luogo dove passato e presente si intrecciano continuamente, reinterpretando in chiave noir le suggestioni dell’Overlook di Shining, lasciando che le porte delle sue stanze, un po’ ammuffite, vecchie, démodé, custodiscano segreti da cui le persone non riescono a sfuggire. La memoria qui diventa un’arma a doppio taglio, un rimorso, una croce, impossibile da tramutare in vuoto. Quello che distingue la scrittura di Cing è la delicatezza con cui questo argomento è trattato, protetto, raccontato in modo molto sentimentale, romantico. E sono convinto che la delicatezza sia l’unico modo per essere efficaci, quando si maneggiano i ricordi. Lo sa Giant Sparrow, che nella maledetta casa dei Finch ha messo tanto di quel materiale da rendere quei personaggi, ormai morti, degli iceberg emotivi di cui emerge solo la punta da un mare in tempesta.
La parte emersa è quella scelta per dipanare il racconto esplicito, psichedelico, spesso devastante, quella sommersa è invece silenziosamente consegnata a chi vuole perdersi in quelle stanza, usando lo zoom della visuale per cogliere dettagli che passerebbero facilmente inosservati. Cosa hanno mangiato per cena Edith e sua madre prima di andarsene e lasciare la nonna da sola, gli oggetti che usava quotidianamente Walter nel suo bunker, isolato da un mondo al quale sentiva di non appartenere più, la bambola preferita di Molly, ancora in attesa che la piccola torni a letto.
Ricordare un passato mai vissuto è la più grande illusione – e probabilmente il più bel dono – che possa fare uno sviluppatore al suo pubblico.
Altri invece decidono di darci una responsabilità pesantissima, quella di tramandare la memoria o, per lo meno, di accompagnare silenziosamente chi ha questo nobile compito. Scavengers Studio in Season: A Letter to the Future, mio gioco della vita, trasforma il concetto di “casa” in “mondo”, un mondo alle soglie della nuova era, che si porterà via i ricordi di tutti i suoi abitanti, come una marea che si alza, sommerge e, ritraendosi, lascia riemergere un nuovo tempo. Nell’atto di fotografare, registrare e annotare questo mondo al crepuscolo – nonostante l’aria primaverile che lo accarezza – ci facciamo custodi delle memorie di chi incontriamo sulla nostra strada, ascoltando dopo aver pedalato, assimilando pezzi di vita, tra chi vorrebbe ricordare e chi dimenticare e ricominciare da zero, ognuno votato al proprio dio, ognuno con una speranza.
Il concetto di tramandare Storia e storie è anche alla base di Pentiment, cult di Obsidian che si interroga sulla stratificazione della cultura, sul significato dei simboli, delle tradizioni e dei riti, che superano le epoche ma che vengono costantemente modificati, adattati, reinterpretati. La sua dimensione da thriller storico, per quanto appassionante e ben scritto, è puro intrattenimento, mentre il vero successo degli sviluppatori è stato proprio raccontare come le tradizioni romane siano state assimilate da cristiani e fatte loro, esattamente come le architetture medievali venivano riutilizzate per costruire nuove abitazioni, chiese, servizi, andando a creare nuovi spazi, spirituali e fisici, in cui vivere il presente e i suoi patimenti (e pentimenti).
Sono temi a cui tengo particolarmente e il videogioco, più di ogni altro media, mi ha permesso di approfondire, trovare nuovi spunti di riflessione, elaborare ma anche, semplicemente, vivere opere non replicabili altrove, capaci di usare un linguaggio complesso, strutturato, ibrido, per arrivare quanto più vicino alla consistenza del ricordo, viscoso e iridescente.
L’impegno è che il podcast e la newsletter non si fermino mai. Non perché lo show deve andare avanti o perché ne vanno delle interazioni, della posizione in classifica su Spotify o per una bulimia da content (che comunque fa parte di chi sono), ma perché per me fare è l’unico modo di affrontare quello che mi succede nella vita. Questi spazi sono importanti, e se hanno un significato è perché ci sei anche tu dall’altra parte.
Senza nessunə dall’altra parte tutto questo sarebbe un albero che cade nella foresta di cui non frega un cazzo a nessuno del rumore, o al massimo una camera dell’eco dove urlo qualcosa e mi risponde la mia stessa voce, deformata pure dall’acustica. Se ci sei, sei importante. Se non ci sei, l’unica cosa che posso fare è farmene una ragione. Non posso essere una cosa diversa da quella che sono.
Oggi uscita veramente bomba.
Il mio "QUEL MOMENTO" non lo vivo da diverso tempo.
I giochi sono cambiati tantissimo e non mi ritrovo davanti a parti frustranti da molto tempo.
Probabilmente però, è anche perché se un gioco mi propone una roba che ritengo insensata a livello di gameplay, difficilmente proseguo.
Calzati mi ha ricordato che devo spendere altri soldi, e Pietro mi ha portato indietro ai tempi di Tony Hawk Underground e SmackDown vs RAW che sono i perni dei miei gusti musicali, probabilmente insieme a NBA Street.
Fifa 2000 gioco pazzesco, peccato che certa roba strana non l'abbiano più inserita.
Tornerei a comprare giochi di calcio con modalità sceme come gli alieni che rapiscono gente.
Anche giocare contro una squadra di pinguino mi andrebbe bene.