I Drony Sony emersero dalle ceneri dell'incendio nucleare. La loro guerra per sterminare i Codici Amico aveva infuriato per anni e anni. Ma la battaglia finale non si sarebbe combattuta nel futuro: sarebbe stata combattuta qui, nel nostro presente... Oggi.
Ecco, e se PlayStation diventasse Skynet e l’esercito degli esseri umani fosse guidato da un John Connor ma nintendaro, quindi Joy-Connor?
Proviamo ad immaginare cosa potrebbe fare un Kyle Reese al soldo di Kyoto per rendere Nintendo Switch 2 un system seller. Tipo magari chiamarla davvero Super Nintendo Switch, come proponeva Jason Schreier in un’inedita versione “visto che cacate il cazzo per i leak mo inizio a speculare come un Francesco Serino qualunque”. Le cose che ci piacciono di questa prima Switch, quelle che non ci sono piaciute e insomma, ipotizziamo un po’ di cosine così alla presentazione saremo delusi quando invece Nintendo tirerà fuori Nintendo 4DS.
Se il podcast guarda al futuro invece l’editorialino di oggi guarda al passato. In entrambi i casi il comune denominatore è l’occhio di oggi, perché sì, è la settimana di Prince of Persia: The Lost Crown e mi sono rigiocato il primo, legnosissimo Prince of Persia per arrivare preparato, ma appunto ne parlo per quello che è oggi, non per quello che era nel 1989. Anche perché io ho giocato la versione MS-DOS del 1990 e l’ho giocata tipo nel ‘94.
Però sto spoilerando troppo. Post, spammini e poi ci rileggiamo.
Se Ubisoft avesse pagato lo Stato per Assassin's Creed II forse i videogiochi non sarebbero una barzelletta qua in Italia.
Di Pietro “Phatejoker” Iacullo
Lasciamo perdere la liceità del disporre gratuitamente del patrimonio artistico di una nazione in un'opera di intrattenimento pensata per fare i big money (l'arte è di tutti, per quanto non per tutti, e per me non è un problema). Quello che mi interessa discutere è proprio il riconoscimento del medium, il fatto che mentre in tutto il resto del mondo giorno dopo giorno il videogioco è sempre più accettato dalle istituzioni qua si faccia ancora un sacco di fatica a parlarne per quello che è: cultura. E senza il "pop" a seguire. Cultura e basta.
È spiacevole ridurre il tutto a una semplice questione di soldi, ma guardiamoci in faccia: quando i videogiochi arrivano in TV o sui giornali o è per episodi tipo la Columbine o è perché smuovono miliardi.
Se il medium garantisse un afflusso di sesterzi nelle casse di Roma a quel punto sarebbe impossibile non prenderlo sul serio. Ci si sta provando alla disperata da anni facendo industria, qualcosa si è anche ottenuto (vedi alle voci First Playable Fund e Tax Credit) per quanto siano briciole, però è evidente che siamo ancora la serie B.
Di questo passo, per dire, nelle scuole medie il videogioco non entrerà mai.
Mentre musica, letteratura e Cinema entrano dalla porta principale, con addirittura ore di lezione stabilite dai programmi ministeriali.
E allora la provocazione di oggi è che ci deve pensare la Francia. Un po' come ai tempi della Campagna d'Italia napoleonica.
Alcuni giochini sono come un buon vino: bisogna dargli qualche anno per poterli apprezzare davvero.
Di Richard “Amaterasu” Sintoni
Quante volte mi è capitato di voler fare quella folle mossa di rispolverare la PS3 e dare una seconda chance a titoli che avevo mollato dopo poche ore, complici le prime impressioni o le nuove uscite.
E cazzo quante volte mi sono dato dello stronzo per 'sta roba. Nel mio backlog ci ho trovato titoli come No More Heroes che nonostante i suoi anni la moto si guida meglio che in Cyberpunk 2077, Dishonored che per quanto tempo me lo sono fatto scappare e tanta, tanta altra roba che chissà, forse all'uscita non l'avrei apprezzata così tanto ma avrei voluto davvero giocare prima.
Un po' perché a furia di accumulare titoli una generazione non mi basterà per smaltire tutto, un po' perché mi sarebbe piaciuto toccare con mano l'evoluzione da una gen all'altra, senza saltare avanti e indietro.
Dateci una possibilità ai titoli vecchi, dico davvero. A volte ci si trovano perle davvero perdute che meritano di farsi trovare.
A parte Bound by Flame. Quello schifo mi faceva e schifo mi fa ancora.
idFference: come id software ha fixato i platform su PC →
Prima di scrivere ‘sta cazzo de newsletter ho fatto le cose per bene. Cioè: mi sono rigiocato su DOSBox Prince of Persia — non tutto perché quella roba c’ha gli anni di Cristo e si sentono tutti.
Ma perché si sentono? Perché PoP è uscito nel 1989. Prima che John Carmack concepisse il cosiddetto Adaptive tile refresh, una tecnica software che permetteva anche ad hardware un po’ del cazzo come quelli dei PC dell’epoca di gestire la telecamera di un platform in modo fluido, senza la necessità di suddividerlo “a stanze” da ridisegnare ogni volta che si usciva dall’inquadratura. Che è poi com’è disegnato appunto Prince of Persia.
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Cosa c'è dentro al robot? Cosa c'è dietro al robot?
Di Igno
La mia esperienza con il genere mecha - dentro e fuori al videogioco - non è vastissima, eppure ne sono sempre rimasto affascinato, anche solo per l'estetica, la cura con cui ogni robottone è scolpito in ogni singolo dettaglio.
Ricordo che Pacific Rim di Del Toro mi colpì moltissimo in questo senso, si sentiva la fisicità di ogni Jeager in ogni inquadratura, che fossero fermi o in movimento. Ne sentivi il peso. E sentivi la partecipazione, la persona - e le persone - dietro la macchina.
Non solo riferito ai piloti, ma a tutta quella svangata di meccanici, tecnici, manutentori e chissà cos'altro che permettevano al Gipsy Danger e gli altri mech di essere lucidi e funzionali in ogni istante, di esistere. Ma anche nel genere Super Robot, in Evangelion e Gurren Lagann io ho sempre visto, in declinazioni differenti, un fortissimo senso comunitario. La condivisione. I mecha per me sono una delle cose più socialiste di sempre perché mi restituiscono sempre l'idea che il pilota non sia mai solo, non possa esserlo. E se vi capita di farvi un giro su Wolfstride di OTA IMON Studios lo troverete ancora più accentuato questo fatto. Un gioco in cui con il robottone ci interagite per il 10% del tempo e il protagonista non è nemmeno l'invasato che lo pilota ma quello che cerca di tenere su la baracca affinché il robot possa continuare a funzionare a dovere e al contempo avere un piatto caldo ogni giorno per tutta l'equipe che se ne occupa.
E Armored Core VI in tutto questo che ci piglia? Forse niente, perché non ci fa vedere tutto questo. Non è il suo scopo, o forse lo è ma ce lo vuole far vedere per sottrazione. Dietro la sua anima fortemente arcade, che è l'involucro metallico dentro al quale noi veniamo messi, si sente il disperato individualismo umano che sta facendo accartocciare il mondo su se stesso. E allora la persona, sebbene non si veda mai un volto, affiora comunque. Tramite manciate di scritte, tramite voci sussurrate, piatte o urlate. Ancora una volta, il vuoto che esalta la forma, o forse il vuoto che diventa forma.
E tutto questo rende il giocattolo meno giocattolo ma al tempo stesso ne esalta la sua parte ludica, rende apprezzabile questo tripudio di modellismo otaku che è forse la cosa più forte di Armored Core. In alcuni frangenti sembra quasi un esercizio di stile, un parco giochi in cui sbizzarrirsi a creare il mech dei nostri sogni, che sia efficiente in combattimento o solo pronto a sfilare nelle arene con un design incredibile, poco importa.
La nostra mano, che attraverso lo sforzo di chi ha messo a disposizione questo arsenale infinito di corpi e armi meccaniche (e non) plasma una nuova creatura. Eva, ti presento Adamo.
Adesso sparagli in faccia.
Ma sotto le braci, c'è altro. Se ascoltate, nella cabina di pilotaggio non c'è solo un battito cardiaco.
Cosa c'è dentro al robot? Cosa c'è dietro?
Ogni persona, ogni entità che si muove insieme a te, che sei in mezzo al fango e alla neve, o tra il ferro e la lava e la roccia. Ogni voce che ti accompagna è dentro al robot, è IL robot. La voce in cuffia conta quanto la mano che preme il grilletto, che sguaina la spada.
Eva, ti presento Adamo. E il tuo sangue è anche il suo.
Spammini Tattici Nucleari™
La Storia di Fallout, parte 2: Rompere l’atomo
Colgo l’atomo fuggente [cit.] per sponsorizzare la prima puntata del 2024 di Storie di Videogame, aka IL PODCAST quando si tratta di giochini. Tempo fa parlavamo di come manchi la divulgazione, l’entry level e beh, Andrea Porta fa un lavoro fantastico sbattendosi un sacco per fare un lavoro di ricerca preciso e poi raccontare le storie che ci sono dietro i videogiochi.
Fila su Spotify, mi ringrazi dopo →
Zelda: Tears of the Kingdom e Death Stranding hanno in comune più di quanto crediate
Questo volevo spammarlo settimana scorsa, ma poi c’era sostanzialmente solo questo e pareva brutto. Ci perdonerà Andrea Baiano Svizzero per non essere stati altrettanto svizzeri con lo spammino. Il pezzo è dello scorso novembre, e magari lo hai già letto. Ma magari no.
Quindi non rompere il cazzo e vai su Medium →
quattro chiacchiere sul maschilismo nel mondo nerd
Chissà come mai quando si parla di maschilismo nel mondo nerd di mezzo c’è sempre la solita Maura Saccà. Forse perché è tipo una delle uniche persone che se ne occupa? Comunque oltre a lei ci sono Alessandra “Yachan” Stefanelli, Cecilia Formicola, Flavia Luglioli e Sara Silvera Darnich. Nomi in cui sicuramente sei già inciampatə seguendo GR.
Ma non voglio fare appropriazione, leggi su claccalegge →
Ok che è l’inizio dell’anno ma lì fuori è il fottuto Sahara, a livello di roba di valore. Al solito, se pensi di aver prodotto/trovato qualcosa di interessante, segnala. Se non segnali, poi è inutile che frigni che non ti si spamma. Non è che posso esse ovunque, oh.
Indiecazioni
Questa settimana le indiecazioni sono a cura di Fortuna Imperatore, in arte Axel Fox, autrice di Freud’s Bones e del recente Bluethroot (si agevola la pagina Steam del giochino).
Io ho un solo modo per definire la parola “indie”, ed è “scugnizzo”. Indie per me è essere scugnizzi, vibrare di autorialità, di collera, di fame e bruciare nella propria ossessione. L'indipendenza di un indie non la stabilisce nemmeno il budget, non è quella la vera e profonda misura, ma la libertà autoriale e creativa che si riesce ad imporre, a rubacchiare, come pirati.
Usare DOS a tres años (por los juegos niños)
Molti credono che il tempo sia come un fiume, che scorre lento in un'unica direzione. Ma io che l'ho visto da vicino, posso assicurarti che si sbagliano. Il tempo è un mare in tempesta! Forse ti chiederai chi sono e perché io parli così.
Siediti, e ti racconterò la storia più incredibile che tu abbia mai sentito…
— incipit di Prince of Persia: Le sabbie del tempo (2003) / explicit di Prince of Persia: I due troni (2005)
Mirano. 30 luglio 1991. Da un anno, Prince of Persia è disponibile su DOS. Da un anno, mio padre — che di anni ne ha 24 — è sposato. E da qualche secondo è effettivamente mio padre, anche se le implicazioni non sono ancora chiare a nessuno dei due.
Ora, mio padre nella seconda metà dei suoi vent’anni non era tanto diverso da me nella seconda metà dei miei: era un coglione. Come tutti i coglioni che ancora non sentono la pressione sociale dei trenta, aveva un hobby e gli dedicava un quantitativo imbarazzante di ore. Il suo hobby erano i PC, al punto che prima ancora che nascesse mio fratello io dividevo camera mia con uno dei suoi PC.
La prima cosa che abbia mai scritto nella mia vita è stata la stringa “win”. Serviva per lanciare l’interfaccia grafica di Windows 3.1 e lanciare Prince of Persia. Avevo 3 anni.
Mio padre flexava spesso questa cosa coi suoi colleghi. E i suoi colleghi quando venivano a trovarci a casa ci rimanevano stronzi, perché in effetti era come diceva lui: a tre anni sapevo usare quella roba stranissima e complicata come può esserlo solo qualcosa che non capisci. Mi ci sentivo a mio agio, il desktop è sempre stato qualcosa di familiare come una scrivania fungibile e lo organizzo ancora come lo organizzavo all’epoca, “Risorse del Computer” (che ora si chiama “Questo PC”) in alto a sinistra e il cestino in basso a destra. In mezzo i giochini. Forse è per questo che trovo arbitraria la differenza tra reale e virtuale. Forse è per questo che non penso che una copia digitale di un libro, un film o di un videogioco abbiano intrinsecamente meno valore dei corrispettivi su carta, cassetta o disco. E allo stesso modo una relazione, qualunque tipo di relazione, non vale di meno perché è nata su Internet, il bene e il male che ne trai sono gli stessi che se quelle parole te le dicessero IRL.
In ogni caso, Prince of Persia. Giocavo l’opera di Jordan Mechner su uno schermo CRT in bianco e nero. Un’ora per arrivare in fondo, o meglio, in cima, e salvare la principessa dalle grinfie di Jaffar.
Se leggendo quest’ultima frase hai pensato “oggi questa cosa non si potrebbe fare più”, ti capisco. Sei un coglione — l’assenza di e rovesce è intenzionale. Ma ti capisco.
In una società polarizzata come quella di oggi è estremamente facile deformare un messaggio fino a distruggerlo e distruggere con lui la causa sociale che ci sta dietro. È quello che fa la destra. A volte non c’è manco bisogno che lo faccia, perché siamo esseri umani, siamo incazzatə e il sospetto fa parte di noi come specie. Resta il fatto che anche se ti capisco rimani un coglione. Death Stranding è uscito nel 2019 ed è la storia di uno stronzo che deve salvare la sua principessa, un Super Mario che asciugato delle sue pose intellettualoidi è appunto un Super Mario, semplicemente vai verso ovest invece che a destra. Lo dice anche Kojima, e lo dice in-game, per cui.
Il punto di una critica femminista al medium non è mai stato cancellare le storie che ci raccontiamo da millenni (Prince of Persia è tratto da Le mille e una notte, circa 900 D.C. e non sono le iniziali di una bestemmia), ma essere consapevoli che parlano della nostra società e nella nostra società, piaccia o no, la fica è spesso ridotta a premio o a MacGuffin.
Il femminismo non ha mai detto che dobbiamo sentirci in colpa giocando a Prince of Persia, non è mai venuto in casa nostra per smagnetizzare i Floppy Disk su cui sono salvate le copie pirata del giochino di Mechner.
Il femminismo dice solo “oh, ‘sta storiella è patriarcato. Stacce”. Difficile dargli torto.
Se nel 1994 mi avessero messo sul PC un Princess of Persia dove per un’ora aspetti che quello stronzo del principe superi i trappoloni e smetta di attaccarsi alle ampolle di veleno scambiandole per quelle di salute — vedi a che cazzo servono gli schermi a colori? — non avrei capito il messaggio dietro un’esperienza del genere. Questo nonostante per finire Prince of Persia, quello effettivamente uscito nell’89 su Apple II e poi arrivato pure su DOS dove l’ho giocato io, dovevi superare il tuo doppelgänger uscito dallo specchio. E l’unico modo per farlo era mettere giù la spada e corrergli incontro. Per finire il gioco dovevi accettare il tuo lato oscuro. Non è una scusa per farlo venire fuori, non è una giustificazione all’essere merda. Vuol dire solo che devi accettare che quelle pulsioni esistono, che non puoi fare a meno di provare rabbia quando la senti. Non puoi fare a meno di pensare “il politicamente corretto signora mia”, ma puoi razionalizzare che è un’idea del cazzo che devi espellere invece che interiorizzare.
Ti devi ricordare che il Principe Oscuro sta dentro: fuori comandi tu.
Se pensi che oggi Prince of Persia non si potrebbe fare più come nel 1989 e la cosa ti infastidisce, prova un po’ a pensare come s’è sentita la principessa in quella cameretta in questi 34 anni. Perché la verità è questa: anche se Prince of Persia è stato il tuo primo videogioco e hai imparato a leggere e scrivere pur di poterci giocare, tu la principessa non l’hai mai salvata.
Te ne sei battuto il cazzo nel nanosecondo in cui è arrivata in casa la versione più catchy della stessa cazzo di storia che raccontava Jordan Mechner: Aladdin della Disney. Perché il giochino della Disney era più colorato, il protagonista non aveva un palo nel culo quando si muoveva e non c’erano solo trappole, pozze e guardie da affrontare con quel combat system semplice ma macchinoso. Prince of Persia alla fine non ti definisce manco come giocatore, figurati se può farlo come individuo. È solo un gran bel ricordo di un periodo della tua vita in cui nel rapporto con tuo padre non c’erano ancora tutte quelle sovrastrutture che ci sarebbero state poi, c’eravate tu e lui e i PC, c’eri tu che ti esercitavi a leggere leggendogli le soluzioni di Tomb Raider II tirate giù da Internet e stampate su fogli A4. In realtà sei molto più legato alla trilogia di Ubisoft che a quella di Mechner.
Solo che anche in quella di Ubisoft alla fine devi fare i conti col Principe Oscuro, e l’unico modo per farcela è accettare che è li da qualche parte perso nel tuo palazzo mentale.
Alle volte viene fuori. Non è necessariamente sbagliato. I Due Troni non potresti mai finirlo senza far uscire il Principe Oscuro, manco nella sua riduzione per PSP. In altri momenti vorrebbe uscire, ma c’è bisogno del Principe vero, non del mostro nato per colpa delle sabbie del tempo. In altri momenti, stacce, il Principe non serve, pensiamo il contrario solo perché è così che ci hanno cresciuto le fiabe. Che arrivino dai libri dei Grimm, dai classici Disney o dai giochini non cambia un gran cazzo. Le storie sono sempre quelle.
E raccontarne versioni nuove non cancella quelle vecchie. Altrimenti il primo a sovrascrivere Le mille e una notte sarebbe stato proprio Mechner, no?
Stai leggendo questa newsletter al day one di Prince of Persia: The Lost Crown. Io l’ho comprato. Se l’ho fatto è anche perché ormai il senso del mio videogiocare è parlarne con te.
A volte si parla del giochino as is, dei contenuti che effettivamente ci sono lì dove adesso c’è un digital download, una volta c’era un disco e prima ancora c’erano come dicevamo i floppy. Altre volte il giochino è un pretesto per parlare dei cazzi miei, per quelle cose che oggi sono di moda ma nel 2013 quando ho iniziato a scrivere io erano supercazzole e venivano mal viste.
Se posso scrivere queste cose, è perché ho questo spazio. E se questo spazio esiste è grazie a chi lo popola, perché altrimenti sarei un albero che cade nella foresta senza nessuno ad ascoltarne il rumore. The Lost Crown lo offro io, ma altre cose quest’anno le paghi tu. Non ho dubbi. Donando su Patreon, subbandoti su Twitch, banalmente mettendo un like o postando un commento qua sotto.
Senza queste cose giocare avrebbe un senso diverso. Forse meno senso.