Chiedere indiecazioni
Tipo, è giusto decidere se e cosa vuol dire "indie" senza farlo diventare un dibattito corale?
Il mio guilty pleasure sono i puzzleini. Ma non quelli ambientali a la Zelda/God of War/Prince of Persia basati sullo spostare degli scatoloni per poi saltare attraverso un ostacolo, i puzzle propriamente puzzle. Rompicapo alla Portal, alla The Talos Principle, pure alla Cut the Rope.
Dio solo sa quante ore ho dedicato a World of Goo invece di ascoltare il prof. di Architettura degli Elaboratori una vita fa, quando l’indie aveva ancora un significato piuttosto chiaro e questa roba la scaricavi da Wiiware e costava giusto 10mila dollari di sviluppo. Avanti veloce e ne dedico lo stesso quantitativo a The Talos Principle 2, costato probabilmente diverse milionate e con alle spalle un publisher enorme che l’ha fatto uscire ovunque. Wiiware non esiste più, eppure io questa roba la vivo ancora, come se fosse un vecchio film di quel regista ammazzato all’idroscalo di Ostia. Pier Paolo Puzzleini.
E quindie. Partiamo da un fatto ormai certo: indie non vuol dire più un gran cazzo. Ha avuto un significato preciso per un certo tempo, ma poi come tutte le cose quando diventano pop questo è iniziato a diventare stretto. Un altro fatto ormai certo è che sul tema dibattiamo da anni, ma non abbiamo mai davvero dibattuto: è sempre stata una gara a chi tirava fuori l’idea più poser per rivendicare il fatto che gli indie veri li raccontava ləi, una ricerca di margini videoludici sempre più ai margini e sticazzi se poi finisci per non parlare più davvero a nessunə, tanto la Game Critique è sempre stata bravissima ad allestire vernissage del videoludo che non sono mai serviti a una sega. E infatti 3/4 della popolazione giocante associa l’idea di gioco ancora al divertimento nonostante il quantitativo di carta sprecato per irridere questa riduzione.
Quello che stai per leggere per una volta non presuppone di avere la verità in tasca. Non mette nessun punto, se non quello di inizio. Durante il corso del 2024 vogliamo ragionare sulla parola indie: su cosa vuol dire, sulla necessità di utilizzarla o abbandonarla, sulle possibili alternative.
Ragionare, però. Non proporre soluzioni edgy da parigini che non hanno intenzione di curarsi degli ott3ntotti*.
*Il riferimento è alla “Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo“ di Giovanni Berchet
A furia di ignorare gli ottentotti adesso con loro parla solo Geoff Keighley. E decide lui per tuttə che cazzo vuol dire indie, sulla base di dove sta la convenienza economica in culo a quella culturale.
Oggi, come bisognerebbe fare quando non conosci la strada, chiediamo indiecazioni. Le prime le abbiamo chieste a persone che sviluppano videogiochi. Il processo rimane in progress, e lo sarà per tutto l’anno. Se vuoi aggiungere anche la tua voce al discorso, sentiamoci. Instagram, Telegram, email, piccione viaggiatore… Quello che vuoi.
Via coi soliti spammini. E poi le prime indiecazioni.
Comunque dai, un po' vi capisco a voi che odiate il politicamente corretto eh.
Di Richard “Amaterasu” Sintoni
Dai, un po' di ragione ad incazzarvi ce l'avete. Con tutte 'ste donne in posizioni di potere che nel mondo reale si contano sulle dita di una mano, omosessuali che non vengono lapidatə e presə a insulti e afroamericanə che ricoprono ruoli da protagonista pare proprio un altro mondo.
Non siete abituatə a 'ste robe. Voi vorreste impersonare un bianco che pesta i neri, e che al posto di mettervi la stellina da ricercato vi danno quella sul petto da capitano della polizia.
D'altronde dove cazzo si vedono più 'ste cose nei media? Solo al TG, dove i giustizieri della strada vengono sbattuti in galera invece di venir decantati come eroi. E se vuoi guardarti un film che parli la tua lingua ti tocca cercartelo in bianco e nero, con quel fastidioso logo dell'Istituto Luce in basso.
Basta sensibilizzazione sulle malattie, sui disagi, sulla depressione. Ridateci i bei vecchi "se sei depresso è perché non scopi" e le botte terapeutiche. Ridateci le scollature abbondanti e le cosce lunghe come autostrade in bella vista come ai tempi di Moulin Rouge.
Ridateci il mondo vero nei videogiochi.
Così è la volta buona che smetto di giocare anche io. Che oramai solo quello mi è rimasto come rifugio dai malesseri del mondo.
Quest'anno hai giocato per millemila ore, ma quante hanno davvero significato qualcosa?
Di Pietro “Phatejoker” Iacullo
Il wrap-up del tempo che hai sprecato sulla tua PlayStation ti dice appunto quello: quanto tempo hai sprecato anche quest'anno appresso ai videogiochi. E oh, ci sono decine e decine di modi per sprecarlo peggio, quindi tutto sommato quelle 900 ore fai bene a rivendicartele. Ma si può fare meglio.
Quante volte quest'anno giocando a Days Gone ti sei schiantato con la moto perché stavi controllando Whatsapp?
Non c'è niente di peggio di un Open World in cui poi ti ritrovi a fare le stesse stronzate che fai IRL nonostante non dovresti farle. Quante altre volte invece hai usato Days Gone, Forza Horizon o quello che ti pare come pretesto per NON rispondere a un messaggio, perché non sei capace di premere pausa manco quanto ti stai rompendo i coglioni e la tua relazione ormai tossica da chissà quanti Natali lo dimostra?
Quanto tempo hai perso aspettando in una lobby di entrare in partita su Rocket League finendo a giocare con gente che poi ti ha fatto incazzare?
Chissà quante giornate ti hanno rovinato, i giocatori che quel Dio beffardo che chiamiamo matchmaking ti ha fatto incontrare. Altra gente tossica che spamma insulti nelle chat o che ragequitta non appena le cose si mettono male. Camper del cazzo appollaiati sempre nello stesso spot che sulla tua testardaggine capitalizzano killstreak sontuose. Quell'amico a cui vuoi anche bene, ma che quando giocate a LoL tira fuori il peggio di te e ti ha fatto bannare già quattro volte.
Quindi ecco. Belli 'sti recap del tempo che dedichi ai videogiochi. Ottimi per beccarsi un po' di likes e fare comunella, a differenza di questo post.
Ma pensa anche a quanto di quel tempo è buttato via, non tanto per i videogiochi ma per i tuoi atteggiamenti del cazzo.
Un'altra cosa che manca alla maggioranza delle persone online è un minimo di educazione al contraddittorio.
Di Davide “Celens” Celentano
Nel nostro piccolo di neanche dieci migliaia di persone sparse tra tutti i social, il pattern del commentatore medio è bene o male sempre lo stesso: entra, legge qualcosa (spesso solo la caption nell'immagine di accompagnamento), sbatte sul tavolo il suo metaforico cazzo contenente verità assoluta in purezza, non argomenta oltre e preme Invio.
Quelle volte che il soggetto in questione sopravvive al martello del ban e riceve pure una risposta che non sia un insulto velato, spesso ha pure la faccia di merda di accusare lə interlocutorə che non vuole fare dibattito ma solo avere ragione.
A questa persona sfugge che qualsiasi riga buttata fuori nei nostri canali è revisionata da minimo tre o quattro persone, quindi se da qualche parte c'è scritto che il cielo è verde tendenzialmente ce ne si accorge facile.
Ma a parte questo sneak peek da dietro le quinte, chi vuole realmente confrontarsi in maniera costruttiva da chi vuole semplicemente rompere il cazzo, si distingue in maniera altrettanto facile.
È quel tono da chi si sente stocazzo, un misto tra il saccente e il sarcastico, tipico di chi crede di poter smontare un discorso articolato con una battutina al volo e due faccine.
Quel tono da chi, evidentemente, non ha mai ricevuto una educazione al contraddittorio.
NON SIAMO MICA TWITCHATORI FERIALI…
Ok, se hai colto la battuta vuol dire che segui Gameromancer veramente da una vita e mezza. E ti meriti un abbraccio. Noi però ci meritiamo di staccare un po’. Tranquillə, il podcast come al solito non si ferma mai. Abbiamo già in serbo sia la puntata di Natale che quella di Capodanno, e saranno pure a tema. Però ecco, la stagione di Twitch si è ufficialmente chiusa con gli Indiependenza Award di mercoledì scorso.
Adesso stacchiamo un po’, ma pure qua, tranquillə. Ci sono già diverse idee per dei nuovi format e la volontà di rendere più costanti alcuni di quelli vecchi, perché tipo io una live al mese secondo il format di Ribolla di Palle me l’accollerei volentieri. Il mio fegato molto meno.
Poi vabbè, chiaro che tutti gli eventi torneranno in pompa magna. PitchAGame, UltraPunk, I3+QUE3R... Sarà un bel 2024. Però va pianificato. Nel frattempo, recupera quello che è già andato on-air:
Spammini Tattici Nuclerari™
Indiependenza 2023: tutti i very vincitory
Se non c’hai tempo & voglia di recuperarti 3 ore di live — ci rimetti tu perché ci sono alcuni momenti veramente devastanti a livello di comicità, ma oh — c’è il solito comodo recap sul blog. Pensa, poteva essere un sostituto di questa newsletter e invece so qua a fa gli straordinari. Quanto cazzo so stronzo.
Scopri i migliori giochini piccini del 2023 sul Sacro Blog →
L’autoinganno dei The Game Awards
Se stai leggendo queste parole è perché non sono ancora stato buttato fuori da The Games Machine. Nonostante un po’ chiunque c’abbia provato dopo la newsletter su Turetta e Activision (e per la battuta su Ustica dell’altro giorno). Quanto durerà non lo so, ma finché dura io provo a sensibilizzare pure un altro pubblico, che qua su Gameromancer non arriverebbe mai.
Leggi l’opinione su PoteriArcani La Rivista Ufficiale →
Video game music and creativity with Miguel Hasson
Mi ero perso questo pezzo (in lingua d’Albione) di Damiano Gerli che parla con il compositore di 9 Years of Shadows. Che è un grandissimo gioco di gende genere, una bella cover (in senso musicale) di Metroid Fusion.
Leggi su Voxel Smash, va →
Quando i videogiochi aiutano a rendere il mondo un posto migliore
Everyeye non è di certo il mio portale preferito. Però è sempre buona cosa portare avanti anche lì sul sito del male quella che è senza dubbio la causa del bene. E Gennaro Saraino con questo pezzo ha fatto proprio quello.
Everyleggi su OgneOcchio →
Mi sa proprio che so in ferie pure tuttə lə altrə. Non ho trovato davvero altro da spammare. Al solito, comunque, puoi (auto) segnalare roba qui:
Le prime indiecazioni
Oggi parlano un po’ di dev, come detto. Lə primə tre l’han fatto in una jam session, un 15 minuti circa di audio intercettato dalla tentacolare Maura Saccà che poi si è tradotto nel dialogo qui sotto. Che pre-pubblicazione è stato comunque revisionato dallə partecipantə.
Comunque, parlano Claudia Molinari e Matteo Pozzi di We Are Muesli e Pietro Polsinelli di Open Lab Games. Sono persone che sviluppano videogiochi da un bel po’, e che ovviamente non lo fanno con i soldi di Ubisoft. Questi sono i loro punti di vista:
Matteo Pozzi: “Indie” in senso puro nell’ambito musicale indicava un modo di fare musica senza case discografiche di mezzo tagliando fuori tutti gli intermediari tra artista e pubblico (poi negli anni è diventata un’indicazione estetica/ideologica che adesso non ha nemmeno più un senso preciso). Nei videogiochi questa cosa non esiste in assoluto, perché sei comunque dipendente dalla piattaforma [per fare un esempio Steam]. Forse lo fanno solo Grezzo e Call of Salveenee. Quindi si torna più ad un discorso ideologico di attitudine, ma è mega-sfumato (come fai a mettere una coccardina “approvato come indie”? E approvato da chi?). Si arriva poi ad un discorso sullo scope del progetto (tipo, quanta gente ci lavora), però a quel punto non ha più senso chiamarlo “indie” e servirebbe un altro termine. E diversi aspetti sono difficili da quantificare, per esempio come fai a sapere quanto è costato un gioco? Magari il dev ci ha lavorato nel suo tempo libero (che non implica che lo sviluppo sia amatoriale).
Tutto questo per dire che una risposta non ce l’ho, è un discorso sfumato e di attitudine su cui ci saranno sempre incomprensioni e qualcuno storcerà sempre il naso dicendo di essere “più indie di te” o spacciandosi per indie (perché magari sei la divisione videogiochi di un’azienda che fa tutt’altro).
Pietro Polsinelli: La situazione è confusa. Non è più un concetto “rescuable”. Sarebbe un errore mettere un confine netto, per esempio “sopra i 100mila euro non sei più indie”. Però sopravvive ancora un concetto all’interno, cioè quello di autorialità. Con “concetto di autorialità” intendo che il gioco è la proiezione di un pensiero o di un’idea che poi guida la produzione in tutto o quasi. C’è un qualcosa dietro di cui poi si mantiene la coerenza indipendentemente da cosa il mercato dice di fare.
Dai Doppia-A in sù parlare di autorialità è problematico, e l’autorialità spesso è inesistente perché hai pressioni dal marketing, dalla produzione e un sacco di vincoli. E attenzione, l’autorialità può essere anche un concetto che viene da un collettivo, non c’è necessariamente un piccolo dittatore alpha male che impone la sua visione. Poi può succedere anche con grossi budget, ma è più raro. Gli esempi che mi vengono in mente sono soprattutto giapponesi, e comunque era più facile prima. Con un mercato immaturo dove i grandi finanziatori non sapevano ancora bene come muoversi gli scappava lo Yoko Taro che faceva le cose perché le voleva così alla faccia del mercato, ma appunto, gli scappa.
Claudia Molinari: Aggiungo una cosa. Deve essere centrale la questione dello svincolo dalle logiche commerciali. “Logica commerciale” non vuol dire che fai un gioco che non voglia avere un ritorno economico, ma che ti svegli, hai voglia di fare di un gioco che va controtendenza rispetto ai trend perché segui una tua poetica (che è simile al concetto di autorialità a cui si riferiva Pietro, ma è un po’ di più). Nel senso che crei un tuo stile e lo porti avanti, a prescindere da cosa ti consiglia il mercato.
I giochi indipendenti per me sono un po’ come dei trendsetter: si posizionano davanti alle posizioni economiche (anche smenandoci parecchio) ma poi creano dei casi mediatici importanti che poi vengono riproposti dalle major con dei budget più alti. Essere indipendente è essere un avanguardista, un pioniere, una persona che nuota per i fatti suoi e che sa dire tanti no.
Matteo Pozzi: Da dove la prendi prendi sfugge sempre qualcosa. Puoi andare a vedere appunto il budget o il numero di persone che ci hanno lavorato, ma nessuno di questi elementi riassume le questioni più creative di cui parlavano Claudia e Pietro. Però di contro ad uno studio che non ha nessuna velleità artistica o sperimentale ed è formato da quattro amici che stan facendo un gioco iper-derivativo non puoi dire “tu non sei indipendente”.
Claudia Molinari: Forse bisognerebbe ragionare “a zone”. Quindi “indipendente per il budget”, “per le persone” e “per la creatività”.
Matteo Pozzi: Però anche se siamo tanto affezionati alla parola “indie” ci sono altre parole migliori per descrivere tutte queste cose. Per esempio, se manca il publisher si può parlare di “autoprodotto”. Se il gioco ha una sua poetica si può parlare di autorialità o di significato. Se il budget era ridotto puoi dire “low cost”.
Pietro Polsinelli: Però perché si tiene al termine e si vuole preservarlo? Perché originariamente riservava un angolino di mercato. E proprio per questo non è da buttar via, perché rinunci a quel piccolo zoo (anche se è sempre più difficile farne parte). Esistono sezioni particolari sulla stampa, o delle organizzazioni e delle comunità che fanno particolare attenzione a questa label, l’affezione nasce da qui. Chiaro che se Devolver rilascia i suoi giochi e li chiama “indie” poi quegli spazi diventano di Devolver.
Le prossime indiecazioni arrivano da Francesco “Superdipi” Di Pietro. Se hai seguito PitchAGame 2023, sì, è il tipo che ad una certa si è vestito da orso. A volte quando parlo con lui vedo lo spettro di Alteri, e forse proprio per questo ci vado d’accordo. Lui in ogni caso parla dal punto di vista di una persona che sviluppa e sta provando a farlo diventare un mestiere, potremmo dire.
Nessun uomo è un'isola, ogni giorno influenziamo e siamo influenzati, e per quanto la "Supertramp utopia" rimanga un faro, una luce guida in mezzo a una turbotempesta capitalista, l'indipendenza vera, quella senza se e senza ma, è solo una paradossale fantasia.
Anche il più libero dei creativi, che affida il suo sostentamento ai propri accaniti sostenitori, prima o poi inizierà a domandarsi se sia conveniente rimanere sulla strada battuta o concedersi il lusso della sperimentazione.
Nel caso di uno sviluppatore di videogiochi, l'indipendenza si abbatte violenta sullo scoglio del betatesting senza colpo ferire.
Si abbatte sul budget a disposizione, sul conto in banca, sui figli da mantenere, sul tempo a disposizione. Sognatevela l'indipendenza, è un astratto, una convenzione.
Non si tratta quindi di una questione di soldi, o di quanto l'esterno influenzi la visione dell'autore, ma si tratta appunto della visione dell'autore.
È l'idea che qualcuno si metta all'opera per creare il gioco che vuole giocare, la canzone che vuole ascoltare, l'idea che vuole trasmettere. A volte ci saranno dei compromessi, altre andrà tutto liscio, ma se la visione rimarrà intatta e l'autore integro, allora l'opera sarà indipendente.
Non confondiamo però l'indipendenza con l'autorialità, l'autore potrà concedere la propria firma anche a progetti che non sente suoi. Non confondiamo l'indipendenza con l'assenza di un controllo dall'alto, perché due ragazzini in un garage possono mettersi a fare prodotti solo per ragioni meramente economiche.
Non illudiamoci di poter sapere con certezza se un opera è indipendente o meno, perché a volte non lo sa nemmeno chi l'ha realizzata. Possiamo limitarci a intuirlo,alla stessa maniera di quando, approcciandoci al nostro migliore amico, al proprio disco del cuore, al nostro giochino preferito, diamo per scontato sia spontaneo, o, più semplicemente, sincero.
Le ultime indiecazioni di oggi sono di Simone Granata, frontman di Kibou Entertainment. Qui il punto di vista è quello di uno sviluppatore indipendente che ha capito una cosa non banale: non serve fare i fantastiliardi per vivere, se ogni progetto guadagna abbastanza da finanziare il prossimo sei in una botte di ferro.
Per me "indie" ha un significato ben preciso. Significato che, per inciso, penso si sia perso in buona parte a favore di sparate dell'industria "che conta" per perpetuare la storiella del "gioco piccolo fatto dal team piccolo che ci ha creduto fino in fondo" (quando poi hanno dietro magari Annapurna o Devolver).
Tornando al succo: per me "indie" significa gioco fatto con un budget inferiore ai 10.000 euro (cifra non casualmente scelta per stare al pari col mirabolante bando pubblico di IIDEA) e fatto con un team pari o inferiore alle 5 persone che mette al centro del development "l'idea" alla base di tutto.
In un settore in cui spesso sento dire la castroneria "le idee non valgono niente" mi permetto di dissentire, poiché OGNI cosa di successo avvenuta durante la storia umana (dalle piramidi all'Iphone) ha avuto origine da un'idea di qualcuno.
Indie è intraprendenza e creatività.
Indie è pochi mezzi ma fatti fruttare al massimo lavorando con costanza e senza sfruttare i tuoi soci del team come fossero spazzatura o ingranaggi a basso costo (vero "circoletto italiano"?)
Indie è amore per quello che fai.
Indie è, soprattutto, arte e creatività.
Perlomeno per me, che sono uno qualunque che vive benino di questo lavoro fregandomene zero dei palchi di Geoff.
Per ora sarebbe inutile dire la mia. Sono qua per decostruire la mia attuale idea di indie (che è grossomodo quella che hai visto ad Indiependenza), non a difenderla. Voglio capire se c’è margine di miglioramento e soprattutto se ha senso continuare a provare affezione per il termine o no, e in questo senso immaginerai che quello che ha detto l’altro Pietro — Polsinelli — mi sta dando da pensare.
In ogni caso il dialogo è aperto. Tutto quello che hai letto qui finirà anche in una landing page sul blog. Quella landing verrà aggiornata con i contributi che arriveranno.
Oggi come non mai quindi l’invito è Join the Rebellion: iniziamo finalmente a discutere su cosa vuol dire indie, invece di pensare di avere la risposta in tasca.
Il dialogo che avete aperto oggi è importante: dare indiecazioni e trarre linee guida dovrebbe potenzialmente rendere il consumatore più conscio di quello che sta acquistando e supportando.
GG.